Storia di un nome

Storia di un nome
Di Mari Catricalà

Il mio nome è Mari. Mia madre Ikuko lo ha scelto pensandoci su molto bene. Alla prima figlia teneva particolarmente a dare un nome – un unico nome – che fosse facilmente pronunciabile in entrambe quelle che sarebbero diventate le sue madrelingue: il giapponese e l’italiano. Ed è approdata a “Mari” passando prima per “Asia” (ma ha intuito l’ironia e ha lasciato perdere, per fortuna) e poi per “Sofia” (che mi avrebbe evitato molte delle frustrazioni degli anni successivi, ma purtroppo lo ha scartato). 

Il mio nome è Mari, e sono madrelingua giapponese e italiana. “Mari” è un nome giapponese, significa “verità”. Gli ideogrammi che mia madre ha scelto per il mio nome sono “真理” – perché in giapponese un nome che si pronuncia allo stesso modo può essere rappresentato da ideogrammi diversi, e sono le forme degli ideogrammi a dare il significato al nome, non il loro suono. 

La pronuncia del mio nome, come in realtà ogni pronuncia di qualsiasi nome, cambia necessariamente a seconda della lingua in cui lo si usa. Restringendo il campo alle mie due madrelingue, possiamo dire, in maniera molto approssimativa, che in italiano l’accento va sulla prima sillaba, così: “Màri”. In giapponese, e spero che i miei connazionali orientali mi perdonino per questa grossolanità, suona un po’ come se l’accento andasse sull’ultima, quindi così: “Marì”.
Il mio nome è giapponese, quindi la pronuncia corretta sarebbe la seconda; ma non stiamo a fare le pulci su queste minuzie, “Màri” va benissimo. Insegnare la pronuncia giapponese a tutte le persone non giapponesi che incontro ogni giorno sarebbe davvero troppo complicato. In più, sono italiana per metà corredo genetico, nata e cresciuta in Italia, e mi piace l’idea che il mio nome venga pronunciato, dagli italofoni, con suoni a loro familiari.

Quindi il mio nome, in italiano, è “Màri”.
Purtroppo, però, e mi spiace soprattutto perché so che mia madre ha fatto il possibile per evitarlo, sono 25 anni, quasi 26, che il mio nome viene sistematicamente modificato nell’anglofono “Mary” o nell’italiano “Maria”.
Ogni volta che mi tocca presentarmi a una persona nuova, mi agito moltissimo, perché spero sempre di riuscire a pronunciare il mio nome in modo sufficientemente chiaro, così da trasmetterlo corretto a chi mi sta di fronte. Eppure, dopo la quasi-scontata domanda: «Ma “Màri” e basta?», la cui risposta, invece, sembra sempre assurda: «Sì, “Màri” e basta», come se provassi gusto a presentarmi con il mio diminutivo, con rare eccezioni (a onor del vero, negli ultimi anni per fortuna non più così rare), il mio nome sulla bocca delle altre persone diventa “Mary” o “Maria”.
Vorrei quindi condividere con voi una piccola riflessione su questo piccolo fatto che però, per me, è di grande importanza.

Come forse si può intuire, non la considero una banale o addirittura stucchevole questione di precisione. Un nome proprio non è solo una serie di suoni e di segni, ma ha un significato: fa riferimento a una persona specifica, e utilizzarlo significa identificare quella persona con quel nome e non con un altro. Se qualcuno mi chiama “Mary” mi identifica con “Mary” e viceversa io sono etichettata e identificata con “Mary”. Ma il mio nome non è quello, io non mi identifico in quello. Io mi identifico in e sono “Mari”. 

Chiarisco subito, un po’ per sdrammatizzare e anche a rischio di suonare banale, che non penso che il nome sia l’identità tutta di una persona: io, ad esempio, mi identifico anche e soprattutto in tante altre cose, come il mio genere, il mio orientamento sessuale, la mia nazionalità, le mie amicizie, i miei progetti di vita, ecc. Ritengo, però, che sia una sorta di biglietto da visita o di primo attributo con cui iniziare a definire una persona in attesa di acquisire altre informazioni. E credo che, per questo, sia importante pronunciarlo il più correttamente possibile – cioè nel modo in cui la persona che possiede quel nome si identifica e si sente a suo agio. 

Ho passato anni a sentirmi replicare, quando osavo correggere la persona che modificava il mio nome in “Mary” o “Maria”, «Eh ma tanto è uguale» o «Cosa cambia?» o «Ah, scusa» per poi ripetere lo stesso errore la volta dopo. Non penso sia uguale e, anzi, penso faccia tutta la differenza del mondo: è in parte una questione di identità per chi possiede quel nome e in parte di riconoscimento dell’alterità per chi quel nome lo usa per rivolgersi a quella data persona. 

Può sembrare una cosa di poco conto, ma sono convinta che per chiunque abbia sperimentato situazioni analoghe, l’imbarazzo, il disagio, il fastidio di sentire storpiato (perché, in fondo, di questo si tratta) il proprio nome non siano sensazioni così estranee o superficiali. 

Ho passato anni – ed è qualcosa che spesso faccio ancora adesso – a evitare di correggere le persone che pronunciavano il mio nome in maniera scorretta, proprio per non dovermi sentire troppo pedante o per non creare imbarazzo nell’altro. Di questo faccio un chiaro mea culpa, perché ho di fatto assecondato un atteggiamento che percepivo personalmente come spiacevole, lasciando che gli altri minimizzassero la questione del nome. 

Sto imparando a capire, anche sentendo le storie di altre persone, che invece bisognerebbe non sentirsi intimiditi da reazioni svalutanti e da commenti frettolosi, perché il nome è davvero importante: dietro c’è sempre la storia di un individuo, della sua famiglia, dei diversi paesi che si sono attraversati, e sentire il proprio nome pronunciato sbagliato è come vedere tutte quelle storie svalutate, tutte quelle identità un po’ minimizzate. 

Come fare, allora? Da parte mia, imparerei a chiedere, sempre cortesemente ma con fermezza, di pronunciare il mio nome in modo corretto qualora qualcuno lo pronunciasse male; lo chiederei esplicitamente, magari anche spiegandone l’origine e soprattutto il motivo per cui vorrei che si pronunciasse in quel modo e non in un altro.
A chi si trova dall’altra parte dell’interazione suggerirei, anche in questo caso, di chiedere: chiedere se si è capita la pronuncia giusta, se la persona che si è appena presentata preferisca essere chiamata in un modo o in un altro, se si possa ascoltare la storia – le storie – del nome, per capirci qualcosa di più. E suggerirei di non svalutare né di minimizzare, né da una parte né dall’altra, perché ferisce e infastidisce. 

Il nome non è l’identità tutta di una persona, ma ne rappresenta una parte fondamentale. Racchiude storie diverse, spesso molto complesse, che se vogliono essere raccontate a mio avviso meritano di essere ascoltate, come qualsiasi altra storia personale.