Quando nasce un bambino

Quando nasce un bambino
Di Priya Brignoli

Durante i mesi di attesa, che tanto “dolce” non è, ho letto vari articoli e diversi libri.
“Quando nasce un bambino, nasce anche una mamma” ho letto da qualche parte, a marzo del primo lockdown di una lunga serie, quando ero al 6° mese di gestazione. 

Una donna nel corso della vita evolve, muta, muore e rinasce, assume nuovi ruoli e vive riti di passaggio. Una donna da figlia e sorella diventa amica, moglie, mamma, se lo desidera, e nuora, eventualmente, nonna e suocera.
Una donna che ospita per nove mesi, nel proprio corpo, un feto fa del suo meglio per prepararsi a diventare mamma.

Solo di recente ad alcuni incontri dei corsi di accompagnamento alla nascita possono partecipare anche gli uomini, mentre per le generazioni scorse la maternità era concepita come un evento femminile e, di conseguenza, la genitorialità era concepita diversamente.
Poiché credo fermamente nel ruolo fondamentale che assume anche il padre nella vita di un figlio, ho coinvolto attivamente mio marito che ha partecipato, orgoglioso, agli incontri del corso di accompagnamento alla nascita, ha vissuto la fase della gravidanza, che dal punto di vista fisico è femminile ma dal punto di vista emotivo coinvolge anche l’uomo.

Si possono trovare in commercio diversi libri che insegnano come essere punti di riferimento per la neofamiglia, in maniera tale che tutti capiscano che nella triade si deve entrare in punta di piedi, bussando e chiedendo “permesso”. Senza fare rumore.

Durante i corsi di accompagnamento alla nascita abbiamo parlato molto dell’aspetto emotivo e psicologico, sia del momento del parto che del post parto. Un capitolo a sé è sicuramente rappresentato dal parto, che non approfondirò in questa sede. 
Ciò che invece mi interessa affrontare ora è il momento molto delicato del post parto, durante il quale una neomamma ha sulle spalle la fatica emotiva e fisica da rielaborare, e allo stesso tempo attraversa una fase di scoperta del proprio nuovo ruolo, divenuto tangibile e quotidiano, di essere mamma. 
Il piccolo o la piccola è tra le sue braccia, deve occuparsene ma nel frattempo si trova a rivedere anche il proprio rapporto con la madre. La figlia non è più solo una figlia, è sia figlia che madre a sua volta, e la madre diviene anche nonna. 

In questa fase di post parto, una neomamma affronta un corpo che cambia, di nuovo. Nell’arco di tempo di nove mesi è cambiato, e ora di nuovo. 
Si piacerà ancora?
È importante che l’autostima, in questo momento di sbalzi ormonali, sia in equilibrio. Ma è inevitabile che una donna, bombardata già di base da un sistema che la pretende perfettamente in forma, si senta brutta.

Ho letto molto anche del baby blues e della depressione, che sono due fenomeni che viaggiano separatamente. Il baby blues è la fase di malinconia di breve durata, e si presenta, se si presenta, quasi nell’immediato post parto.  La depressione post parto invece è molto più intensa, e la neomamma può non volersi occupare del neonato o sentirsi tremendamente inadeguata. Può capitare.
Credo sia difficile affrontare l’argomento in maniera sincera poiché le donne che l’hanno vissuta fanno fatica ad esternarla. 
Sarebbe bello invece potersi esprimere liberamente e ascoltare le esperienze di altre donne nelle famose “Tende rosse”.

Nel post parto si subisce anche il fenomeno del consiglio non richiesto da parte di amiche, vicine di casa, colleghe di lavoro, o parenti. Tutti si sentono in diritto/dovere di spiegarti come fare.
Forse, sarebbe bene ogni tanto imparare a tacere e ad ascoltare, tendendo una mano o un orecchio, piuttosto che snocciolare consigli o massime sulla vita.

Io e molte amiche del “Club delle mamme” (il nome che abbiamo scelto per la chat di whatsapp, che ringrazio ogni giorno per essere presenti, a distanza, in questa fase delicata della vita, e soprattutto in questo momento storico che tutti stiamo vivendo) abbiamo ricevuto consigli non richiesti, domande impertinenti e critiche anche da parte di chi conoscevamo appena.

In modo particolare, ho notato che può esistere invidia, o molta competizione, tra generazioni diverse, nel momento in cui viene al mondo un bambino. Questa competizione è sentita maggiormente tra le figure femminili della famiglia, mentre tra genero e suocero o tra figlio e padre, è molto difficile che si instauri.
Dal mio punto di vista, per ovviare a questa problematica, sarebbe opportuna una consapevolezza migliore di se stesse, in primis, e una maggiore collaborazione tra le donne, come insegnava la scrittrice statunitense Kate Millett, leader del femminismo radicale della seconda metà del secolo scorso.

Dal blog di Patrizia Cordone, denominata “L’Agenda delle Donne”, che ho trovato navigando sul web, ho tratto ispirazione leggendo alcuni articoli da lei tradotti.
La società punta a metterci in competizione, le une contro le altre, le donne contro le altre donne. Perché? Cerchiamo di capire questo subdolo meccanismo che agisce nel sottosuolo della nostra cultura.
Nel 1970 Kate Millett fu la prima a parlare di “sorellanza”, tradotto dall’inglese “sisterhood”, per promuovere l’alleanza empatica, intellettuale, e anche politica tra le donne. In questa unione non deve esistere differenza di classe, di provenienza, o di religione. 

Cosa possiamo fare nel concreto noi in risposta ad una società che trae vantaggio dalla competizione indotta?
La soluzione è semplice: essere solidali e lottare tutte insieme, per vincere, come donne. La cultura, come insegnava la Millett, può aiutare questa rivoluzione ad avvenire nella società, anche a livello politico.

In chiusura, riporto una citazione dal blog della Cordone:
“La coscienza femminile della quale godevamo nei primi tempi delle nostre società, si è persa con il passare del tempo. Al giorno d’oggi non abbonda questo vincolo genuino volto a generare cambiamenti. 
Non abbiamo solo bisogno di essere amiche, perché il concetto di sorellanza va ben oltre. Parliamo di fratellanza, di complicità femminile, di un principio etico con il quale avere una mentalità trasformatrice, così come di un impegno sociale che non si limita solo a sollevare uno striscione di tanto in tanto in una manifestazione. La sorellanza è una rivoluzione che va da dentro verso fuori. Prendendo prima coscienza di ciò che si è, di ciò che si merita e di che cosa non si sta raggiungendo in una società che rimane, purtroppo, fortemente patriarcale. Successivamente questa coscienza deve impregnarsi in ogni donna che incontriamo nella nostra vita quotidiana, sostenendola, visualizzandola e riparando la femminilità scheggiata con il fine di rafforzarci reciprocamente. Passerà poi dalla sfera emotiva a quella sociale, per sfruttare e promuovere una vera e propria trasformazione della società. 
Non meno importante, la sorellanza impone un esercizio di critica e autocritica costante. A volte noi stesse possiamo porre in essere comportamenti che danneggiano l’idea di fratellanza e di femminismo sfidando altre donne, pensando che se la nostra vicina ha avuto una promozione “c’è qualcosa sotto”; nel dubitare di quella sconosciuta che denuncia un’aggressione e alla quale per qualche motivo decidiamo di voltare le spalle. 
Sorellanza è sinonimo di solidarietà, significa essere in grado di creare una rete di sostegno per aiutarci e di rivendicare un reale cambiamento. Mettiamolo in pratica, crediamoci”