Di Rosanna Nossa
Era probabilmente una tiepida giornata di maggio del 1897 quando Giovanni entrò come di consueto nel Caffè Centrale del paese per bere un calice di vino con gli amici. Non era per il vino, che lasciava sempre a metà nel bicchiere, ma per fare due chiacchiere prima di rientrare nella sua casa vuota. Solo due anni prima l’influenza spagnola si era portata via sua moglie e le sue due figlie piccolissime e lui d’improvviso si era sentito vecchio, nonostante i suoi ventiquattro anni.
Si sentì un po’ di baccano, e voci allegre, all’ingresso del Caffè. Entrò un piccolo gruppo di persone, fra le quali Giovanni riconobbe la donna che teneva in braccio una neonata agghindata a festa. Del resto si conoscevano tutti in paese.
Il gruppo era appena uscito dalla chiesa dove si era celebrato il battesimo della bambina. La piccola Maria piangeva disperata e sembrava che nessuno si curasse particolarmente di calmarla. Giovanni si avvicinò e chiese di poterla prendere in braccio, sedendosi in un angolo appartato del locale, mentre gli altri facevano festa. Lontana dal clamore, fra quelle mani solide, pur vagamente goffe, Maria si calmò, distendendo i tratti del suo minuscolo viso. Fu allora che Giovanni si sorprese a guardarla con tenerezza e, di fronte agli amici che lo guardavano incuriositi, si sentì dire: “Avete visto che bella bambina? Quando diventa grande me la sposo!”. Naturalmente non sapeva, allora, che venticinque anni dopo l’avrebbe fatto davvero…
Il nonno Giovanni e la nonna Maria si sposarono il 16 gennaio 1921 (esattamente il giorno in cui nacque mia madre, ma questa è un’altra storia…).
La famiglia della nonna Maria contrastò in tutti i modi questo matrimonio. Non solo perché il nonno Giovanni aveva il doppio della sua età, ma anche perché era povero. Non che i miei bisnonni navigassero nell’oro, ma che fossero benestanti sì, lo si poteva dire. Dei ventun figli che erano nati dal loro matrimonio (la nonna era la diciannovesima), avevano superato l’infanzia meno della metà, ma con gli introiti della macelleria di cui erano titolari nel paese avevano garantito loro una vita agiata. La nonna Maria collaborava nel negozio di famiglia, il fratello Marino si era aperto un suo panificio in un paese vicino, Saverio aveva una drogheria, Alfredo si era trasferito a Milano e cantava alla Scala…

Comunque nessun argomento convinse la nonna Maria, tantomeno la minaccia di non ricevere un soldo dalla famiglia. Non volle sentire ragioni. Lei si era innamorata di quel bell’uomo alto, dallo sguardo intenso e dai modi gentili, così come lui si era innamorato di lei, non tanto per la sua bellezza, quanto per la sua estrema vivacità, la sua allegria, la sua vitalità che lo aveva riagganciato al mondo. L’unica foto sbiadita che ritrae la nonna in gioventù, rigorosamente in posa, appoggiata a un treppiede da una parte e nell’altro braccio un mazzo di calle, mostra un ovale rotondo in cui spicca un naso pronunciato (il suo cruccio di sempre) sopra a una bocca morbida, carnosa; e, sotto l’acconciatura anni Venti e le sopracciglia marcate, due occhi scuri dentro uno sguardo che pare un po’ perso.
Furono molto duri i primi tempi del loro matrimonio. Si trovarono una stanza che affacciava in uno dei tanti cortili allineati sulla circonvallazione del paese. Le pareti erano umide. L’arredo era costituito da un tavolo di legno, quattro sedie impagliate, una piccola credenza e un armadio tenuto insieme da un fondo di lamiera. Il materasso su cui consumarono la loro prima notte d’amore era fatto di foglie stipate dentro a un sacco di ruvido cotone.
In quel periodo difficile non di rado capitava che alcune donne che avevano beneficiato della generosità della nonna quando serviva nella macelleria, le restituissero il favore portandole scarti di carne per il brodo.
Il nonno Giovanni di mestiere faceva il sensale, ovvero il mediatore in contrattazioni di prodotti agricoli e zootecnici. Un buon lavoro, che si era costruito da sé, se non fosse che proprio gli difettava lo spirito d’impresa. Non che gli mancassero intelligenza o intraprendenza ma era assolutamente tutto d’un pezzo, e visceralmente onesto. Mio padre mi raccontò che una volta, ormai giovanotto, si intromise in un suo affare, riscuotendo al suo posto da un cliente quel che aveva ritenuto il giusto, e incassando la differenza della cifra pattuita dal nonno. Quando lo seppe questi si arrabbiò moltissimo e mandò il papà a restituire fino all’ultimo centesimo il sovrappiù.
L’altra aggravante del nonno era la sua religiosità. In famiglia ho sempre sentito raccontare che quando suonava la campana del rosario lui lasciava a metà la minestra, si alzava e andava in chiesa, incurante delle proteste della nonna, che lo invitava a finire almeno quel piatto ancora fumante.
Echi di questa grande religiosità del nonno sono arrivati anche a me quando da piccola all’oratorio Margherita, una delle pie donne del paese, mi parlava di questo nonno che non avevo mai conosciuto come di un sant’uomo, scandendo le parole e guardandomi dritta negli occhi come a investirmi dell’impegno di dover essere degna di lui. Anche mia madre me ne aveva parlato raccontandomi quanto spesso aveva visto passare davanti a casa quell’uomo (che non sapeva sarebbe diventato suo suocero) diretto verso la chiesetta della Madonna dei campi: le avevano detto che andava a pregare ogni giorno perché suo figlio Michele, mio padre, tornasse salvo dalla guerra.
Anche in questo aspetto la nonna Maria era diversa: lei era più critica e ce l’aveva pure un po’con i preti, soprattutto da quando quel gran Monsignore che tutti in paese veneravano e consideravano un illuminato aveva negato il funerale in chiesa a un suo fratello, che si diceva si fosse suicidato gettandosi nelle acque torbide della roggia del paese.
Mio padre era nato nel 1923, due anni dopo il matrimonio. La nascita del piccolo Michele aveva sciolto finalmente le tensioni che avevano tenuto lontana Maria dalla sua famiglia, che la riaccolse al proprio interno. Ma la nonna , orgogliosa, non chiese e non volle mai nulla, non accettando gli aiuti economici offerti. Solo qualche regalo per il bambino, che non voleva privare dell’affetto dei suoi nonni. La nonna Maria era felice, a volte un po’ insofferente rispetto a quell’integrità, quella sobrietà esagerata del nonno Giovanni, ma in fondo orgogliosa di lui e della stima di cui godeva da parte di tutti in paese, e anche nei paesi vicini. Certo, lei avrebbe voluto potersi concedere un abito nuovo ogni tanto, o un bel paio di scarpe, ma si sentiva ugualmente appagata, soddisfatta della sua vita.
A distanza di sedici anni dalla nascita di mio padre, nel 1939, quando la nonna aveva quarantadue anni e il nonno sessantasette, nacque la zia Gianna. Una bambina bellissima di cui andare orgogliosi.
Tutto quel che viene dopo è storia recente, che conduce i ricordi a una nonna che nei primi anni della mia infanzia vive in casa con noi, prima di trasferirsi dalla zia Gianna con la sua famiglia, e ci legge le fiabe intorno alla stufa.
E agli anni successivi, quando, poco più che adolescenti, mia sorella e io la stuzzicavamo riguardo a quella figlia avuta quando il nonno era così avanti con l’età, insinuando il sospetto che l’avesse tradito, e lei sosteneva perentoria che non aveva mai fatto scappatelle, lei, che ce lo mettessimo bene in testa. Ma rideva, rideva… Era allegra la nonna, e moderna, come dicevamo noi, e dotata di un gran senso dell’ironia. Non so se riuscì mai a superare il dolore per la perdita di suo figlio, mio padre, avvenuta nel 1978. Ci lasciò due anni dopo, nel 1980, in una fredda e insolitamente limpida giornata di novembre.