Mestruazioni

Di Caterina Frusteri Chiacchiera

 Cercavo una bella immagine libera dai diritti di utilizzo, significativa e d’impatto, da allegare al mio scritto.  Nel motore di ricerca ho scritto “mestruazioni” e “sangue mestruale”. Mi aspettavo di trovare fotografie di assorbenti intrisi di sangue, vestiti, mutandine o sanitari macchiati. Paradossalmente non ho trovato proprio NULLA. Ho dovuto ripiegare su immagini legate a crimini. E la mia scelta non è stata un caso.

Secondo gli studi di antropologia svolti all’università, in quanto membri di una società, siamo tutti esposti a “impliciti simbolici”; vittime, se così si può dire, dei condizionamenti che comporta l’appartenere, volente o nolente, a un sistema culturale. E nella nostra realtà, uno degli “impliciti” più significativi è la svalorizzazione del corpo.

Infatti, il riconoscimento di una prospettiva unitaria dell’essere umano, in occidente, ha dovuto superare i pregiudizi radicati in modelli che hanno storicamente interpretato la sfera fisica come separata da quella dell’attività intellettiva.
Tale “dualismo”, inaugurato dalla filosofia greca, vede uno dei suoi massimi esponenti in Cartesio, che concepisce come ontologicamente disgiunte la dimensione corporea, res extensa, dal pensiero, res cogitans, organizzandole secondo una scala di valori che vede nella ragione la massima espressione dell’umanità.
In più, ci si è messo anche il cristianesimo, che con il suo Dio incarnato non poteva certo permettersi il rischio della deificazione della corporeità.

Solo tra il XIX e il XX secolo hanno iniziato ad aprirsi campi di indagine che smontassero questa visione.[1]

Ma il tabù del corpo è ancora presente. E in quanto donna, posso affermare di subire un tabù doppio: del corpo e del corpo mestruato.
Infatti, nonostante le mie ostentate prese di distanze dalle convenzioni sociali, cultura occidentale e cristianesimo[2] si incarnano (non uso a caso questo termine) in me in particolare rispetto alla concezione che ho del mio corpo.

Già, perché, che concezione ho del mio corpo? Praticamente, nessuna: vivo costantemente nella testa, nei pensieri.
Terribile?

Ma’, in verità non ne avrei mai avuto una coscienza profonda se non mi fossi imbattuta in due grandi eventi: uno, conoscere mio marito, istruttore di arti marziali, che ha fatto della consapevolezza mente-corpo il suo stile di vita; e l’altro, prima ancora, avere a che a fare con le mestruazioni.

Dolori atroci e istinti assassini: questi, tra gli altri, i segnali insopprimibili che il ciclo mi manda a monito dell’esistenza della mia dimensione fisica.
Eppure, nonostante per tre-cinque giorni al mese io (come milioni di donne) non abbia nemmeno l’energia per scendere dal letto, e l’unica che cosa sana sarebbe prendermi cura di me e del mio corpo, il mondo intorno mi costringe a mantenere lo stesso tenore di vita “produttivo” di sempre.

In tal modo, durante il ciclo mi sento letteralmente scissa: obbligata a indossare la maschera della professionista capace ed efficiente, senza lasciar trapelare il minimo turbamento.
Nei momenti in cui il malessere è stato impossibile da celare, ho incontrato la solidarietà delle colleghe, espressa con complicità segreta, e i commenti pungenti dei colleghi uomini (inconsapevoli, dato il periodo, di mettere a repentaglio la loro stessa incolumità).

D’altro canto le pubblicità degli assorbenti parlano chiaro: con il ciclo si può fare di tutto.

Si può ballare su un palcoscenico in tutù (chi tra noi donne della porta accanto, quotidianamente, non piroetta sulle punte vestita di tulle?); fare una bella maratona nel deserto (quando, per buona pace di mio marito, non sono disposta nemmeno a fare jogging intorno all’isolato, già in tempi normali); e si può persino indossare un bel tubino bianco tutto tempestato di paillettes (cosa più paradossale di tutte: ma siamo matte?  Con tutti i complessi estetici che questa cultura mi ha procurato? Personalmente di bianco ho solo un paio di pantaloni del pigiama. Ed è già il massimo dell’emancipazione, per quanto mi riguarda: lo sappiamo tutte quanto ingrassa, il bianco!!!).

Comunque, contraddicendo l’idea di mestruo come liquido azzurrino e delicato proposta dai media, a me il ciclo arriva come un tornado.
In quei giorni si sgretolano millenni di sedimentazione simbolica (e anche il mio artefatto stile di vita post-capitalista viene spazzato via), e sono riportata, in maniera ineludibile, a prendere atto dell’intrinseca corrispondenza mente-corpo.[3]

Come conciliare tutto questo con il tabù del corpo mestruato, che mi accompagna sin dal menarca?

Già la comparsa della prima mestruazione, infatti, fu traumatica, accolta dall’impreparazione di mia madre nel doversi relazionare con la femminilità, propria e mia, e con una figlia adolescente.
Nascosi questo evento alle mie amiche e compagne di scuola, e per anni, ebbi la sensazione di portare una stigmate di cui dovermi vergognare.

Così, non mi stupisce l’aver avuto tanto da recuperare rispetto alla mia identità di genere.

La mancanza di riconoscimento delle mestruazioni, il diniego, accompagnato a giudizio, ha causato in me (ma suppongo non solo a me) la sensazione che avere il ciclo sia qualcosa di squalificante. Qualcosa di negativo iscritto direttamente nella mia natura di donna. 

Ma non è così sempre e ovunque (certo, in alcune condizioni, può essere anche molto peggio).
Ricordo alcune ricerche analizzate ai tempi dell’università: ad esempio, in una certa tradizione ebraica, esistono determinate prescrizioni di “affermazione” del periodo mestruale, in cui attraverso un complesso rituale la donna durante il ciclo viene “allontanata” dalla vita “ordinaria”.
Se col tempo si è configurato anche come forma di “segregazione”, originariamente tale distanziamento era vissuto come “ritiro”, o tempo di riposo, e motivato dalla “potenza” che il flusso sanguineo sprigionava. La donna veniva riconosciuta come portatrice di un nuovo status specifico carico di potere personale e sociale, che non doveva essere occultato, bensì accettato e svelato.[4]

Ripenso anche alle indagini di Margaret Mead, che già agli inizi degli anni ’30 aveva osservato il taglio meno “traumatizzante”, poiché più ritualizzato e socializzato, dei processi educativi degli adolescenti in alcune realtà sociali diverse dalla nostra.[5]
In poche parole, in altri sistemi culturali, si ricorre a azioni codificate di “riconoscimento” che accompagnino l’acquisizione individuale e collettiva della consapevolezza identitaria.

Potrebbe essere così anche per il menarca, per il ciclo o la menopausa?

Nella nostra società, che già soffre del disconoscimento della corporeità, la mancanza della possibilità di condividere alcune condizioni significative dell’esistenza ha determinato un profondissimo senso di smarrimento nelle donne (ma non solo).
Io, personalmente, ho cercato di ovviare a tutto ciò creandomi un rituale che riqualificasse il mio corpo, i suoi mutamenti e in particolare il periodo del ciclo: scrivendoci sopra.
E con questo articolo vorrei invitare tutte le donne che vivono come “schizofrenico” il rapporto tra il proprio corpo e la realtà ad unirsi a me.

Perciò, donne, scriveteci!

Raccontateci: com’è per voi avere il ciclo? Come è stato il momento delle prime mestruazioni? Come vivete la pre-menopausa o la menopausa ecc.?
Come vi relazionate al vostro corpo e all’ambiente intorno, che cerca costantemente di costringerci ad occultare una parte così essenziale della nostra personalità?

Insomma, donne, parliamone, rompiamo il tabù del corpo mestruato e usciamo dal silenzio!


[1] Nulla a che fare, comunque, con il fenomeno sempre più rilevante in epoca contemporanea, dell’ostentazione di un’immagine corporea “scolpita” da esercizi di fitness, svolti in palestre aperte quasi h 24.

Con questo non si intende demonizzare la sana attività fisica come fonte di benessere, ma sottolineare come il tentativo di modellare la propria fisicità rispetto a ideali esteti canonizzati, con tutto il culto dell’immagine che ne consegue, fan parte sempre di quel processo di “scollamento” tra le due sfere, fisica e mentale, di cui, come occidentali, siamo condizionati da millenni.

[2] Cito a tal proposito il mio professore di filosofia del liceo, che credo citasse a sua volta Croce, che affermava che anche se lo volessi (e ancora non ho capito se lo voglio o no) non potrei dirmi del tutto atea, dopo millenni di cristianesimo.

[3] Eh già, ironico: mentre mio marito per raggiungere la consapevolezza del proprio corpo deve concentrarsi in impegnativi esercizi di stabilità ed equilibrio, di meditazione e di ascolto della respirazione, a me basta semplicemente attendere ventotto giorni.

[4] Adriana Destro, Antropologia dei sistemi religiosi, Pàtron, 2002.

[5]Margaret Mead, L’adolescente in una società primitiva. Uno studio psicologico della gioventù primitiva ad uso della società occidentale, Giunti-Barbera,1980.