“Comunque nude”. Nell’arte e nei media, la violenza che non sappiamo raccontare

Io non volevo scrivere di violenza, giuro.

Volevo scrivere della rappresentazione dei corpi femminili nell’arte e nella statuaria pubblica, a partire dal libro “Comunque nude”, uscito quest’anno per Mimesis a partire dalla ricerca dell’associazione MiRiconosci.

Ma ecco che il patriarcato ha messo un altro corpo tra me e la mia intenzione. Un corpo non di bronzo o marmo, ma di carne e sangue. Un corpo ucciso. Un altro.
Ammetto di non essere una vorace lettrice di cronaca nera, specialmente se coinvolge femminicidi. Non per menefreghismo; semplicemente non ce la faccio. La probabilità di imbattersi in un articolo scritto bene, e rispettoso, senza romanticizzazione della violenza o victim blaming è troppo bassa.

E allora prendo nota che un’altra di noi è stata ammazzata. Mi incazzo. Mi spavento. Mi angoscio. Ascolto le raccomandazioni: stai attenta, non fare quella strada, non prendere i mezzi troppo tardi. E mi incazzo ancora di più.
Ascolto tutti i “not all men” nei corridoi dell’ufficio, i “poverina” e tutta la valanga di stronzate di chi, una volta morte, ci vuole dare la laurea come un bel contentino del cazzo.

Visto? Ecco perché volevo scrivere di statue. Ma in fondo a ben pensarci anche quel tema mi fa incazzare perché è tutto inserito nella stessa matrice culturale che vede le donne come oggetti di cui i maschi possono disporre a loro piacimento. Quella che nessuno nomina mai, e che si chiama cultura dello stupro.

E allora, dal momento che volevo parlarvi di Comunque nude, partiamo da qui. Partiamo dalla rappresentazione della violenza di genere nell’arte pubblica.
Partiamo da un dato: “In Italia le statue dedicate alle vittime di femminicidio o che si occupino di offrire uno spiraglio di dibattito pubblico sono pochissime, tutte opera di uomini, tutte fortemente criticate sia perché lesive della sensibilità delle vittime, sia perché effettivamente non hanno fatto altro che riproporre gli stessi bias e immaginari stereotipati che al fenomeno già fanno da pilastri.”

Scrive così Alexandra Forcella, prima di introdurre “Violata”, la scultura di Floriano Ippoliti voluta dalla Commissione Pari Opportunità della Regione Marche e che dovrebbe ricordare tutte le vittime di violenza.

In realtà il monumento più che un memoriale sembra una beffa. La donna rappresentata è coperta (ma sarebbe meglio dire scoperta) da vestiti a brandelli che lasciano completamente scoperti seno e natiche e lasciano intravedere un accenno di pube. È in piedi, a gambe divaricate mentre guarda verso l’altro, in una posa che secondo lo scultore dovrebbe rappresentare la forza di chi dopo aver subito violenza non si ferma a piangere su se stessa, ma che in realtà accentua la sessualizzazione del corpo, già estrema.

Un corpo esposto, denudato, buttato sulla pubblica via, atteggiato per l’occhio maschile. Quello che dovrebbe essere un tributo alle vittime di violenza diventa esso stesso atto violento.

Scrive ancora Forcella: “La Violata di Ancona è una donna violata più volte, tradita nella sua libertà una volta e ancora assoggettata all’occhio dell’uomo: un occhio divorante, che prende l’oggetto guardato, lo incorpora, lo distrugge e lo costringe a subire il proprio volere.”

Lo schema di rappresentazione dello stupro nella statua di Ippoliti segue esattamente le stesse logiche che utilizzano i media nel raccontare la violenza: morbosità, accanimento su dettagli inutili, pornografia del dolore, banalizzazione.

La donna raffigurata se ne sta lì, con i suoi vestiti strappati e le membra scoperte, mostrandoci i dettagli scabrosi di quello che le è successo, e non è molto diverso da Nunzia de Girolamo che chiede a una survivor di ripercorrere in diretta i momenti del suo stupro, sguazzando nella pornografia del dolore per aumentare gli ascolti. O dai titoli sensazionalistici e gli articoli che raccontano dettagli macabri dei femminicidi, come è successo in questi giorni con Giulia Cecchettin.

“Se vogliamo davvero iniziare a trattare con decoro e precisione la violenza di genere, iniziamo a fare a meno della morbosità del racconto dei corpi e del sangue” scrive Carlotta Vagnoli. Vale per i giornali, i TG e i social. E vale anche per l’arte e per le statue.