Vulve, Incel e machismo: la forza provocatoria del teatro

Di Giulia Farina

Immagina di sederti in un teatro, la penombra che avvolge la sala, il sipario che si alza rivelando un mondo nuovo. Ora immagina che questo mondo sia la nostra realtà. Il teatro, con la sua capacità di far immergere il pubblico in narrazioni coinvolgenti, diventa un alleato potente nella promozione di una comunità inclusiva.

Il teatro ha infatti una missione sociale: può donare una voce a chi non ce l’ha, può portare all’attenzione pubblica temi che svaniscono nell’indifferenza generale, può contribuire a un ampliamento della rappresentazione e costringere ognun* di noi a mettersi in discussione.

Per entrare nel vivo dell’argomento non posso esimermi dal menzionare “The Vagina Monologues” di Eve Ensler, una pièce teatrale tra le più politiche degli ultimi dieci anni. Lo spettacolo esplora i concetti di consenso, corpo, immagine, prostituzione, mestruazioni lasciando la parola a donne di diverse età, sessualità, etnia ecc.
Dalla scena si passò velocemente alla piazza: lo spettacolo nacque con l’obiettivo di celebrare la vulva e la femminilità e ben presto si trasformò nel V-Day Movement, movimento e associazione no profit che si batte per estirpare la violenza contro le donne.

Se esistono messe in scena che dichiarano esplicitamente i propri intenti, ce ne sono altre dalla denuncia sottile, che si trasformano nel corso della rappresentazione assumendo toni violenti, aggressivi.
La critica in questi casi si fa più sottile ed è facile che il pubblico si divida tra chi comprende il sottotesto e chi, invece, si lascia conturbare.

È il caso de “La rivolta dei brutti“, uno spettacolo ispirato alla strage di Isla Vista (California, 2014) cui punto focale è la rappresentazione degli Incel, termine che si riferisce a uomini “celibi involontari”. Gli Incel sono persone che si sentono escluse dalla società, in particolare dalle donne, perchè non belli, non ricchi; i loro sentimenti di risentimento nei confronti del genere femminile si inaspriscono ulteriormente nel (dark)web, dove trovano uno spazio per sfogarsi – e fomentarsi – in piena libertà, alimentando un machismo violento.
Lo spettacolo «racconta il tentativo di giustificare un maschilismo feroce attraverso dinamiche vittimiste; racconta le modalità con le quali la rete amplifica ed esaspera le frustrazioni generazionali e crea dei ghetti virtuali che nella coscienza degli utenti diventano luoghi reali».

Un artificio simile è stato creato in “Gli altri. Indagine sui nuovissimi mostri” (regia di Nicola Borghesi): messa in scena che indaga la natura degli hater, specialmente quelli razzisti e misogini.
La performance prende il via a partire dal caso Sea WatchCarole Rackete, e se inizialmente mantiene uno stile prettamente giornalistico, teso a raccontare i fatti, pian piano assume tinte oscure: il narratore prende le difese di tutti coloro che si sono scagliati contro la comandante.
La voce di Borghesi si riempie di termini osceni e razzisti.
Il pubblico è in bilico: realtà o finzione?
Stiamo assistendo a un’esasperazione o al reale pensiero del performer?
Il ritmo si fa sempre più concitato, il narrato sempre più assurdo.
Prima minacce di morte e stupro a Rackete, poi un’aggressività senza precedenti nei confronti dell’ ”odiatore”, che deve pagare con un prezzo altrettanto alto la sua violenza. Capiamo che è finzione e un sospiro di sollievo ci (mi?) rasserena.

Chi viene a teatro ha bisogno di rappresentazioni come queste, ha bisogno di essere scosso, criticato, messo alla prova, di essere posto di fronte alla violenza senza potersi girare dall’altra parte, di ascoltare termini come “vulva” e “mestruazioni”, di assistere a performance come quelle della compagnia “Deaf West Theatre” (che coniuga rappresentazioni per un pubblico sia sordo che udente).

Sembra banale, ma non lo è. È rappresentazione, una delle legittimazioni e validazioni più potenti di cui disponiamo.

È troppo facile ripetersi che si è parte dei “buoni”, ma quant* di noi, quando privilegiat*, si battono per una società che sia veramente inclusiva? E quant* di noi, invece, rispondono all’odio con altro odio?
Personalmente non ho bisogno di sentirmi fare “pat pat” sulla spalla, di sentirmi dire quanto sono brava, semmai necessito di qualcuno che mi scuota, che mi faccia mettere in discussione.
Ovviamente non possiamo vivere questa assunzione di consapevolezza con senso pietistico, crogiolandoci nel senso di colpa, semmai occorre sfruttarla per uscire dalla nostra comfort zone e usare il nostro privilegio per aprire un dialogo, sensibilizzare, batterci attivamente, riappropriarci di parole taboo e portare sul palcoscenico persone invisibilizzate.

Conclusione?

Andiamo a teatro.