Sexism and the City

Di Elena Esposto

Che fosse Bergamo, Rio de Janeiro, Milano o Amsterdam ho sempre amato vivere in città. Non c’è niente da fare, l’ambiente urbano mi si addice (ho anche provato a vivere in campagna ma non ha funzionato).
Eppure, dati alla mano, le città non sono luoghi per donne.

L’agglomerato urbano, per sua storia, nasce a immagine e somiglianza della parte maschile della popolazione, in un tempo dove la donna era relegata allo spazio privato, mentre quello pubblico era riservato esclusivamente agli uomini. 
Le città continuano a portarsi dietro questa eredità patriarcale, e spesso è ancora molto evidente.

La scienza che si occupa di pianificare e costruire quartieri e città è l’urbanistica, nata come branca della geografia umana, ma che ottenne la sua indipendenza come disciplina verso la metà del diciannovesimo secolo, quando il problema delle condizioni di vita nei grandi centri urbani si fece pressante.
L’urbanistica organizza molti aspetti della vita della città: non solo la viabilità stradale, ma anche l’edilizia abitativa, gli spazi pubblici, i servizi, i trasporti e tutto quello che riguarda l’ambiente urbano.

Fino agli anni ’70 venne considerata una scienza neutra, ma, anche grazie al dibattito sollevato dai movimenti femministi, ci si rese ben presto conto che l’organizzazione dello spazio riflette inesorabilmente le disuguaglianze sociali e di genere.

Come evidenziano le attiviste del Collectiu Punt 6, gli spazi urbani sono stati costruiti a partire da, e perpetrando, i ruoli di genere, secondo quella distinzione cui accennavamo prima: maschile-pubblico, femminile-privato. 

Il fatto che donne e uomini facciano esperienze diverse dello spazio, e con lo spazio intrattengono diversi tipi di relazioni, è un fatto innegabile.
Le donne, ad esempio, sono quelle che rimangono più legate ai luoghi inerenti ai lavori di cura, come le scuole, gli ospedali, i supermercati e gli uffici amministrativi.

Ciò ha posto tutta una serie di problemi, a partire dal momento in cui dalla famiglia allargata, patriarcale certo, ma con una fitta rete femminile di supporto, si è passati alla famiglia atomizzata dell’era industriale, con tutto il peso delle incombenze familiari sulle spalle delle donne, spesso unite a quelle del lavoro.

Il prezzo più alto viene pagato dalle donne single che magari non possono permettersi di alloggiare nei sobborghi più residenziali, e finiscono per vivere in periferie lontane dai servizi come scuole o asili, dai supermercati, dagli spazi verdi e dai distretti culturali e dell’intrattenimento.

Spesso, poi, non è neanche una questione di mera scomodità, ma di vera e propria sopravvivenza.

Come è emerso da uno studio della World Bank, milioni di donne vivono ogni giorno in situazione di rischio e degrado a causa di vari aspetti dell’organizzazione urbana, dalle vie e i parcheggi male illuminati, all’assenza di bagni pubblici dedicati, al controllo di interi quartieri da parte di gruppi criminali e al trasporto pubblico di pessima qualità (e chi se la scorda Border Town?).

Le donne utilizzano i trasporti pubblici molto più degli uomini, ma non tutte le zone delle città sono servite adeguatamente, e la mancanza di una mobilità capillare e sicura rende difficoltosa la partecipazione delle donne alla vita pubblica, soprattutto in quei luoghi in cui per distanza, pericolosità o condizione delle strade, gli spostamenti a piedi non sono contemplabili.

Il rischio si estende poi agli altri membri vulnerabili della famiglia, come i bambini. Quando vivevo nelle favelas di Rio de Janeiro, ad esempio, non ricordo di aver mai visto una mamma con un passeggino, non solo perché molte non se lo potevano permettere, ma anche a causa delle pessime condizioni di strade e marciapiedi. Questo comportava una gestione dei bambini ancora più faticosa, magari tenendone uno in braccio, uno per mano (e nell’altra mano lo zaino, la cartella o la borsa della spesa), in zone a traffico intenso con attraversamenti pedonali spesso precari o inesistenti.

A metà degli anni ’90, a Vienna, vennero implementati dei progetti che miravano ad eliminare le disparità di genere nel godere dello spazio pubblico.
Si era infatti notato che le ragazzine oltre i nove anni non usufruivano più dei parchi come i loro coetanei maschi, i quali colonizzavano spazi come i campetti di calcio o basket. L’amministrazione cittadina decise di aumentare il numero di campi di pallavolo o badminton, oltre che il numero di panchine.

Vienna fu pioniera nel mettere in atto strategie di urbanistica di genere di questo tipo, sebbene oggi sia evidente come siano stati effettuati solo rimedi superficiali.

Non abbiamo bisogno di soluzioni biased che si adattino a comportamenti già in atto, ma di soluzioni che contribuiscano a creare nuovi schemi di comportamento e di pensiero.

Alcune città si sono già dotate della figura del gender city manager, ma molte azioni possono essere portate avanti anche come singole o gruppi della società civile.

Dobbiamo rompere con il paradigma delle città a immagine e somiglianza dell’uomo medio e rendere le donne più visibili nello spazio urbano.

A cominciare dai nomi delle strade (nelle principali città italiane le strade e piazze intitolate a donne sono un decimo di quelle intitolare a uomini), passando per statue e monumenti (a Milano, quanto a mia conoscenza, fatta eccezione per Madre Ubu di Mirò, non c’è nemmeno una statua che raffiguri una donna) o segnali ed indicatori stradali (ad esempio gli omini dei semafori, che sono appunto stilizzazioni di una figura maschile).

Dobbiamo occupare gli spazi pubblici con i nostri corpi e le nostre attività. Come le donne del Torncliffe Park Women’s committee di Toronto, che hanno riqualificato l’area di un parco della città, organizzando un mercato settimanale di artigianato femminile, aprendo un caffè gestito esclusivamente da donne e arrivando a ricoprire ruoli autorevoli nei processi decisionali. 
Le donne, infatti, devono diventare attori centrali del decision making. 

Ad oggi solo il 10% dei posti di lavoro di alto livello in ambito architettonico è occupato da donne, senza considerare che raramente vengono incluse nel processo di pianificazione urbana anche a livello di società civile.

Molte delle nostre città stanno vivendo momenti di riqualificazione urbana e di riprogettazione di spazi pubblici che possono, e devono, includere una prospettiva di genere, perché l’onerosa eredità patriarcale dell’urbanismo cominci a sfumare in un’ottica più inclusiva e women friendly.