Mimosa

Testo: Martina Gerelli
Illustrazioni: Monia Donati

Conoscevo a menadito tutte le crepe di quel soffitto. La più evidente si diramava dalla base del lampadario, sviluppandosi con un’andatura incoerente verso la finestra. A un certo punto la curva schizzava così improvvisamente verso l’alto così da sembrare un elettrocardiogramma impazzito: non potevo fare a meno di notare che quella crepa mi assomigliava. Ogni punta di quella linea irregolare era come un battito del mio cuore quando sobbalzava per la paura. 

La osservavo da sotto le coperte, di sottecchi, fingendo di dormire. Era così che cercavo di tirare in lungo, di occupare il mio tempo improvvisamente dilatato da quella pandemia che ci aveva costretti tutti a chiuderci in casa. 

Lui veniva a sbirciarmi regolarmente, me ne accorgevo, ma io restavo immobile il più a lungo possibile, almeno fino a quando non iniziava a produrre rumori molesti: trascinava una sedia da un punto all’altro del soggiorno, spostava la poltrona, accendeva la televisione nonostante dovesse lavorare. Erano chiari segnali di impazienza ed io rischiavo di tirare troppo la corda, lo capivo; allora mi alzavo, sentendo subito accelerarsi il battito del cuore. Cosa mi avrebbe attesa nella stanza attigua? Quale uomo avrei trovato quel giorno? Cosa avrei escogitato per passare la giornata il più possibile lontano da lui?

Era difficile pensare di fare qualcosa lontano da lui, quando le circostanze sociali e politiche di quel periodo ci costringevano a stare sotto lo stesso tetto ventiquattr’ore al giorno. Eppure era l’unica speranza a cui potevo appigliarmi. 
Lui lavorava da casa, io ero in cassa integrazione perché facevo la hostess per una compagnia aerea, e da mesi nessuno viaggiava più. 
Lui mi maltrattava da circa sei mesi – da quando, cioè, vivevamo insieme – ed io non avevo ancora capito come uscirne. 

«Buongiorno, Massi» lo salutai quel mattino, mentre entravo in salotto in punta di piedi, e domandai: «Come procede il lavoro, oggi?»

Il mio atteggiamento era remissivo, sempre e comunque. Avevo imparato che sembrare docile e indifesa, arresa, senza un motivo apparente, era la strategia migliore per non suscitare il suo malumore. 

«Buongiorno, Serena, ben svegliata» mi rispose con un tono di rimprovero, mentre a fatica distoglieva gli occhi dal pc. «Ti ho lasciato del caffè nella moka» proseguì, inespressivo e duro. 

Mi diressi verso la cucina, traendo un sospiro di sollievo: quando non rispondeva a monosillabi significava che la giornata aveva buone prospettive di essere “positiva”. Quel mattino aveva addirittura avuto un gesto di riguardo per me. 
Mi muovevo lentamente, come se la lentezza mi aiutasse a farmi notare di meno. A rendermi invisibile. In salotto Massimo parlava al telefono, concitato: probabilmente stava intrattenendo i suoi colleghi in una delle loro ricorrenti riunioni di metà mattina. 

Si dà il caso che nella vita io sia sempre stata una maldestra cronica, e quella mattina non mancai di confermare tale attitudine. E così, mentre mi allungavo verso l’ultimo ripiano dell’armadio per prendere una tazzina, feci cadere un bicchiere. Che si frantumò ai miei piedi.

Mi paralizzai come se il mio corpo avesse raggiunto -50° C in un baleno. Anche il cuore, per un attimo, sembrò smettere di pompare. Poi riprese a martellare, più forte che mai.
Massi non parlava più. Io non mi muovevo più. Quando si affacciò alla porta della cucina, pochi secondi dopo, aveva uno sguardo torvo. 

«Cosa aspetti a pulire?» mi aggredì immediatamente. «È possibile che tu non riesca a tenere niente in mano? Sai con chi stavo parlando, eh? SAI CON CHI STAVO PARLANDO?»

«No» risposi con voce flebile. Non so nemmeno con quale fiato sia riuscita a emettere quella sillaba. 

«Ero al telefono col CEO. Col CEO, lo capisci?!» continuò lui, urlando. «Era una telefonata importante e tu sei riuscita a rovinarla. Mi hai fatto perdere il filo del discorso e ci ho fatto una figura di merda!»

«M-mi spiace» provai a scusarmi, odiandomi perché stavo iniziando a balbettare come una bambina insicura. 

«E fai bene a dispiacerti! Ma non cancellerai la mia figura di merda con le tue scuse» sentenziò, accompagnando quell’ultima parola con un colpo secco della mano sul piano della cucina.

Sobbalzai.

«E pulisci i vetri» concluse, andandosene di nuovo davanti al suo pc. Allora, ricominciai a respirare. 
L’unica cosa a cui pensavo era che avrei voluto essere quella crepa nel soffitto che si infilava nell’angolo della finestra, per poi perdermi libera nel mondo di fuori. 

Non era sempre stato così, anche se a ben pensarci non trascorse molto tempo tra l’inizio della nostra convivenza e la prima, strana sfuriata.
Si trattava di gelosia. Nel giorno della festa della donna, Guido, un mio collega steward, aveva portato un rametto di mimose a tutte le donne dell’equipaggio. Quel gesto ci aveva rallegrate così tanto che appuntammo il rametto sull’occhiello della divisa e lo tenemmo per tutto il volo, e oltre. Quando, quella sera, tornai a casa, Massi non sembrava altrettanto contento di quel dono. Iniziò a farmi mille domande su Guido. Quanti anni ha? Dove vive? Con chi vive? Ce l’ha una ragazza? 

Massi era evidentemente geloso, e io dapprima ne fui lusingata. 
Ma lui non sembrava soddisfatto delle mie risposte, che in certi casi erano piuttosto vaghe, devo ammetterlo. Non sapevo con chi vivesse Guido, se abitasse da solo o con qualcun altro, e non avevo idea se qualcuno dei suoi innumerevoli flirt potesse considerarsi un rapporto stabile tale da considerarlo “la sua ragazza”. 

«Ti sto facendo delle domande serie. Ci lavori insieme più di otto ore al giorno e non sai niente di lui?» mi incalzava, con aria di sfida.

«Massi, no, Guido non è il mio confidente, né io il suo. Tutto quello che so di lui sono i pettegolezzi che si dicono in giro…». All’epoca avevo la forza di reagire e tentavo di dargli risposte guidate dal buon senso.

«E ci mancherebbe altro che non sia il tuo confidente!» sbottò Massi, e proseguì minaccioso: «Non ti azzardare a farci l’amica, sai? Non esiste!»

«Cosa stai dicendo?» provai a replicare, confusa.

«Non ci provare, hai capito? Guai a te se torni a casa con qualche altro regalo di Guido». Pronunciò il suo nome scimmiottando la mia voce, poi prese la mimosa dall’occhiello della mia divisa e la sgretolò nel suo pugno duro, mentre io lo fissavo desolata. 

Il mattino seguente mi svegliai ancora contrariata e un po’ diffidente, ma Massi mi chiese scusa riempiendomi di baci sul collo, con tutta la tenerezza che la sera prima non aveva dimostrato. 
Mi abbindolò e io lo perdonai. Ero ancora inconsapevole della rete torbida in cui mi stavo infilando. 

Ormai eravamo arrivati al punto che non si scusava nemmeno più. Io ero talmente spaventata dalle sue reazioni, dalla sua aggressività improvvisa, dai suoi insulti, che avevo smesso di fare obiezioni, e la mia vita era diventata una corsa all’evanescenza. 
Vivevo nel tentativo di sparire. Più non ero, più stavo tranquilla. 

In quei giorni di clausura affinai questa tecnica con tutte le mie forze. Sparire era a tutti gli effetti la mia ragione di vita. L’obiettivo ultimo di ogni infimo, infinito giorno. 

«Cosa mangiamo per pranzo?» mi chiese Massi, un’ora dopo lo spiacevole episodio del bicchiere frantumato. Mi parlò come se mi stesse facendo un favore. E in effetti lo era, perché se la giornata non fosse stata tutto sommato buona, non mi avrebbe rivolto la parola almeno fino a sera. 

Mi sforzai di entrare nelle sue grazie per adempiere al mio obiettivo di svanire, di esserci senza esserci al fine di non recargli alcun turbamento, e così gli cucinai gli spaghetti alle vongole, uno dei suoi piatti preferiti. Non solo: mi offrii di preparare una torta al caramello nel pomeriggio, in assoluto il suo dolce più adorato. 

Massi giocò a fare il sostenuto ancora un poco, lungo il pomeriggio lanciò qualche altra frecciatina sulla mia maldestrezza, e ovviamente non cercò minimamente di compiacere il mio estro culinario, se mai esso sia esistito; al contrario, non volle assaggiare subito la torta al caramello. 

«Non ne ho voglia, adesso» mi liquidò con finta noncuranza. «La assaggio domani mattina.»

Dal fondo del barile da cui ormai osservavo il mondo, non c’era più spazio per la delusione. O meglio, era una sensazione che provavo, ma era così pervasiva di ogni istante che vivevo, che nemmeno la notavo più.
La mia vita era una vita delusa. Delusa da Massi, delusa dalle circostanze, ma più di tutte, delusa da me stessa. 

 «Io ho un po’ sonno: cosa ne dici se andiamo a dormire, Massi?» azzardai, mentre la trama di un film poliziesco scorreva inosservata davanti ai miei occhi. La sera, Massi scovava sempre un qualche film pieno di intrighi da guardare spaparanzato sul divano. 

«Eddai, aspetta un attimo, è quasi finito» rispose senza distogliere lo sguardo dallo schermo. 

Presi il cellulare e iniziai a scorrere pigramente la bacheca di Facebook, quando un post attirò la mia attenzione. 
In farmacia chiedi la mascherina 1522. La frase in codice per denunciare una violenza domestica.  

Mi voltai di scatto verso Massimo come se potesse avere una vista bionica e leggere attraverso gli ingranaggi dello smartphone; sarebbe stato più probabile che fosse riuscito a leggere attraverso il guizzo luminoso nella mia espressione, se solo avesse avuto l’abitudine di osservarmi. In ogni caso, per fortuna, era preso dal suo poliziesco. Un misto di paura, speranza e irrequietezza mi abitarono in un sol colpo: più tardi, capii che erano i primi sintomi di una rivoluzione. 

Iniziai a domandarmi se non fosse arrivato il momento, se non fosse il caso di trovare il coraggio che mi era mancato fin dall’inizio; quando ero spesso fuori casa per lavoro, la mania di controllo di Massi non mi era sembrata anomala, ma ora aveva trasformato la mia casa in una cella. Alla lettura di quel post su Facebook, ebbi la sensazione che un fiore stesse germogliando dentro di me. 

Ero ancora sovrappensiero, quando Massi mi parlò: «Ehi, hai ancora sonno? Menomale che non stai lavorando in questo periodo, eh! Ti stanchi proprio come niente, polpettina» esordì mentre insinuava la mano tra le mie cosce. 
Polpettina. Era così che mi chiamava quando voleva farlo. 

Socchiusi gli occhi e deglutii; mi assestai sul divano spostandomi impercettibilmente da lui, cercando di non fargli capire che il suo tocco mi infastidiva. Quel giorno, così apparentemente indolore, stava volgendo al termine richiedendomi uno sforzo non previsto: avrei dovuto fingere. E certo era una delle cose che meno mi piaceva fare.
Dopo avermi penetrata, Massi rotolò su un fianco con malagrazia.

«Buonanotte, polpettina» disse, e si addormentò in pochi minuti. 

Come sempre, io impiegai molto più tempo a prendere sonno, e quella sera ancora più del solito: nella mia testa roteavano le parole lette su Facebook. E sbocciavo. 

Il mattino seguente, quando mi svegliai, la luce calda della tarda mattinata filtrava dai buchi della tapparella, rimasta leggermente aperta la sera prima. Il sole si irradiava attraverso gli spiragli, creando macchie gialle e luminose sul muro crepato del mio soffitto. 
Piccole macchie circolari, gialle e luminose, come fiori di mimosa.