Cosa ci ricorda la Giornata mondiale contro l’AIDS durante la pandemia di Covid-19

I fattori sociali e culturali incidono su chi contrae la malattia e sulla sua prognosi.

Di Jennifer Brier
Traduzione di Elisa Belotti

https://www.washingtonpost.com/outlook/2020/12/01/what-world-aids-day-reminds-us-during-covid-19-pandemic/

Il 1° dicembre 2020 è la prima Giornata mondiale contro l’AIDS celebrata dall’inizio della pandemia di Covid-19.

Mentre il Paese si concentra sull’elaborazione dei vaccini anti Covid per rispondere alla devastante crisi sanitaria del 2020, questo giorno ci offre un’opportunità per riflettere sulla reale persistenza dell’HIV e dell’AIDS. Infatti dopo quarant’anni dalla sua prima apparizione, l’AIDS resta una presenza stabile nel nostro presente e la medicina da sola non sarà mai la soluzione ottimale per porre fine alla malattia e alla sua diffusione. Inoltre la storia dell’AIDS ci ricorda che discriminare le persone per le loro azioni distoglie dal vero problema: le strutture profonde della disuguaglianza economica ed etnica sono fattori determinanti per la diffusione della malattia.

La Storia può fornirci delle linee guida per una situazione sanitaria migliore, ma solo se guardiamo oltre le spiegazioni superficiali. Nel caso dell’AIDS – e allo stesso modo, fondamentalmente, anche per il Covid-19 – la sopravvivenza può dipendere dalla mobilitazione politica e dalla richiesta da parte dei pazienti di ricevere soluzioni non solo biomediche alla malattia.

Questo è stato in particolare il caso delle donne con HIV/AIDS e i nuovi dati mettono a disposizione una serie di riflessioni su come le donne, la maggior parte delle quali nera e di colore, è sopravvissuta con l’HIV per decenni. Tra le trentanove donne incluse in “I’m Still Surviving”, c’è Marta Santiago, una donna etero di origini latine che è cresciuta nella zona Ovest di Chicago tra gli anni ’60 e ’70. Santiago ricorda di aver pensato, nei primi anni ’80, che lei e suo figlio, appena nato, non avevano nulla di cui preoccuparsi a proposito del GRID (gay-related immunodeficiency), il nome inizialmente dato all’AIDS. Ciò che lei non sapeva, mentre si rassicurava, è che sia lei che suo figlio avevano già contratto l’HIV nel 1980.

Il quartiere di Santiago, negli anni ’70, le riservò poche opzioni. Confrontandosi con una segregazione razziale crescente e una diseguaglianza economica che si stava intensificando, Santiago si ritrovò senza un diploma di scuola superiore e nella necessità di fuggire da un matrimonio violento. Cercò un lavoro dove poté: in fabbriche di vestiti in cui le donne ricevevano bassi salari e si scontravano con abusi sessuali costanti. Per ottenere una tregua da queste circostanze, Santiago trovò persone e luoghi che la fecero sentire libera, ma che la introdussero anche in una nuova situazione di pericolo, in particolare il sex work e l’eroina. Entro il 1979 Santiago si sposò una seconda volta. Ebbe un figlio nel 1981 e divorziò nel 1984.

Cinque anni dopo, Marta risultò positiva all’HIV insieme a suo figlio e si disintossicò. Riflettendo sulla sua storia oggi, Santiago è la prima a realizzare che molte delle sue azioni negli anni ‘70, incluso il matrimonio, potrebbero essere dipese dall’HIV. Quando però le fu diagnosticato per la prima volta nel 1989, Santiago venne accusata di essere un vettore per l’HIV/AIDS e ottenne scarso supporto e cura come donna che doveva convivere con il virus.

Molto sorprendente fu il gruppo di donne con l’HIV che Santiago incontrò nel seminterrato del Cook County Hospital. Tutte le donne, la maggior parte delle quali nere, erano pazienti al neonato Women and Children with AIDS Program, diretto da Marge Cohen e Mildred Williamson, uno tra i primi centri medici di Chicago a trattare le donne. Loro dimostrarono che una cura efficace per le donne con HIV non poteva prescindere dal considerare le disuguaglianze sociali ed economiche che hanno colpito a lungo le donne di colore.

Sia Santiago che suo figlio sono vivi oggi grazie alle cure garantite dal Women and Children with AIDS Program. Lì ricevette un eccellente trattamento medico che riconobbe come la malattia si manifestava nel suo corpo. Per lei, e tutte le altre donne nella clinica, questo richiese costante attenzione alla salute ginecologica e l’accesso ai servizi di salute mentale.

Allo stesso tempo, Santiago continuò a portare avanti l’idea, insieme a chi le aveva fornito assistenza psicologica, che la salute e il benessere richiedevano molto più dell’assenza della malattia. Santiago, per stare bene, aveva bisogno di servizi per l’infanzia di qualità, opportunità lavorative che le permettessero di avere un salario minimo, e incoraggiamento a costruire comunità di supporto con altre donne con l’HIV. Dozzine di donne trattate alla clinica sono vive oggi e ascoltare le loro esperienze può aiutarci a comprendere cos’è fondamentale per il benessere a lungo termine.

Dirigendoci verso un futuro in cui la trasmissione di HIV è fortemente limitata per merito di una serie di soluzioni biomediche, incluse la PrEP (profilassi pre-esposizione), un più facile accesso a trattamenti farmaceutici abbordabili e vaccini per l’HIV, rimarrà importante ricordarsi di come le donne sono sopravvissute ampliando la definizione di cura e di trattamento per l’HIV fino a comprendere la fine della violenza di genere e delle disuguaglianze. I loro attivismo ha trasformato il modo in cui il personale medico e il governo americano determinarono la diagnosi di AIDS all’inizio degli anni ’90. Questo movimento cambiò anche l’educazione intorno all’AIDS. In luoghi come il Bedford Hills Correctional Facility di New York, ad esempio, le donne incarcerate svilupparono un notevole curriculum educativo basato sulla peer education per prevenire la diffusione dell’HIV, aiutando anche le donne appena scarcerate a convivere in modo sicuro con l’HIV e a rientrare nelle loro comunità di origine.

Oggi, mentre ci confrontiamo con la consapevolezza relativa all’AIDS e al suo trattamento, notiamo anche delle importanti lezioni per gestire il Covid-19, una malattia che ha colpito in modo sproporzionato le comunità di colore. Ciò accade perché il razzismo causa disparità etniche ed è stato a lungo la condizione preesistente che rende questi virus fattori di grande rischio per le comunità di colore.

Anche la decisione di fare uso di droga o di fare sesso in determinati modi – a lungo visti come comportamenti di cui gli individui devono assumersi la responsabilità – è influenzata dalle loro circostanze economiche e politiche, incluso lo scarso accesso a impieghi redditizi o una pervasiva violenza di genere. Solo quando si sarà in grado di capire che il razzismo sistemico e la disuguaglianza, più che le scelte individuali, sono le vere radici della pandemia globale, si potrà iniziare a guarire.