Genital panic: vulva e vagina, cosa c’entrano con l’arte? (Parte seconda)

Di Alessia Mammino

Per rispondere a questo interrogativo poche settimane fa abbiamo percorso la linea del tempo dalla fine dell’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento, abbiamo scomodato artisti del calibro di Manet, di Courbet e di Klein ed assistito alla trasformazione della donna da oggetto a soggetto attivo dell’arte, impegnato nell’esibizione spudorata dei propri genitali (fluidi compresi) per veicolare rivoluzionari messaggi di emancipazione [clicca qui per leggere la prima parte del contributo].

Ma fino a che punto si sono spinte alcune artiste nei decenni successivi e in anni molto vicini ai nostri?

Ci siamo lasciati rievocando il Vagina Painting di Shigeko Kubota, simulazione pittorica del flusso mestruale. Quest’ultimo è invece sfacciatamente presente in Red flag, una foto-litografia del 1971 della femminista statunitense Judy Chicago, raffigurante un primo piano della vulva da cui viene estratto un tampone intriso di sangue. Come in molte delle sue provocatorie creazioni, l’artista fa dei genitali una bandiera dell’identità sessuale della donna, al punto da inaugurare l’anno successivo a Los Angeles, insieme alla collega Miriam Schapiro, la Womanhouse, uno spazio espositivo e performativo dedicato all’arte femminista, al fine di sensibilizzare il pubblico alla necessità di sovvertire il ruolo sociale convenzionalmente imposto alle donne. Qui vengono presentate istallazioni come Menstruation Bathroom, un bagno dedicato alle mestruazioni, con un cestino stracolmo di tamponi e assorbenti usati, e Dinner Party, una tavola triangolare imbandita con un tripudio di forme vulviche per rendere omaggio a trentanove donne che nel corso dei secoli si sono ribellate ai pregiudizi.

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Poiché il ciclo mestruale non può e non deve essere motivo di vergogna, nel 1981 l’americana Tamara Wyndham comincia a realizzare con periodicità i Vulva Prints, impronte volutamente disturbanti dei propri genitali insanguinati su carta giapponese. Chissà cosa ne avrebbe pensato Klein (l’autore delle Antropometrie, impressioni su carta di corpi femminili totalmente nudi)!

Sua contemporanea è la più nota Carolee Schneeman, che nella performance del 1983 intitolata Fresh Blood: a Dream Morphology, in cui ricorrono il colore rosso e forme a “v”, porta avanti la riflessione sui tabù legati alla vagina e al sangue mestruale. L’artista statunitense, rappresentante di un femminismo radicale, si era imposta sulla scena dell’arte quasi un decennio prima. Risale infatti al 1975 Interior Scroll, un’azione estremamente perturbante messa in scena di fronte al pubblico newyorkese della mostra Women Here and Now. Completamente nuda dava pubblica lettura del proprio testo dal titolo Cezanne, She Was a Great Painter, in cui aveva immaginato un capovolgimento del sesso del noto pittore francese. A sconvolgere non era solo la nudità prepotentemente esibita, ma soprattutto l’atto conclusivo, ovvero l’estrazione dalla vagina di un rotolo di carta che riportava per iscritto la propria risposta alle critiche ricevute da un collega, ironica allusione al carente riconoscimento dell’arte delle donne. In sostanza l’intera performance suggeriva la possibilità di attribuire anche alla vagina e, per estensione, alla donna, la capacità di generare arte, oltre che vite umane.

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Questo excursus può quindi fornirci ulteriori elementi per comprendere le ragioni profonde dello sgomento che già nel 1968 aveva volutamente scatenato Valie Export con la performance che dà il titolo a questo contributo, Genital panic appunto, un’irruzione nel cinema di Monaco armata di mitragliatrice e con i soli genitali audacemente scoperti e offerti alla vista del pubblico. Dichiaratamente femminista, dallo sguardo fiero e severo, l’artista, tra le prime a metterci letteralmente la vulva, aveva così capovolto il senso de L’Origine del mondo di Courbet. La sua nudità, tutt’altro che sensuale, si era presentata come una battaglia contro lo sguardo voyeuristico di una società maschilista capace di perpetrare violenze fisiche e psicologiche nei confronti delle donne.

Ma non finisce qui. In anni più recenti, restando nell’ambito del citazionismo courbettiano, la tedesca Rosemarie Trockel, senza denudarsi, con sottile ironia e una buona dose di ambiguità, rielabora L’Origine del mondo derivandone il fotomontaggio Replace me (2009), ovvero “sostituiscimi”, in cui i toni realistici dell’opera pittorica originale vengono ridotti ad una scala di grigi e una tarantola nera prende il posto dei peli pubici. L’associazione dei genitali femminili a un animale, pericoloso e addirittura mortale secondo l’opinione comune, non può che far pensare alle oper-azioni delle artiste femministe e alle tematiche da esse affrontate, ad oggi in gran parte riconosciute dalla critica e dal mercato dell’arte. 

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Più esplicita è infine la citazione messa in atto nel 2014 da Deborah De Robertis, lussemburghese di origini italiane, attraverso la performance Lo specchio dell’origine. Senza alcuna autorizzazione l’artista percorre le sale del Musèe d’Orsay di Parigi fino ad accomodarsi davanti al dipinto di Courbet, a scostare le grandi labbra e a mostrare ai visitatori del museo l’interno dei propri genitali. In sottofondo risuonano l’Ave Maria di Schubert e una registrazione vocale della performer che insiste sul tema della donna in quanto origine. La provocazione, che le costa l’arresto con l’accusa di atti osceni in luogo pubblico ed esibizionismo sessuale, ambisce ad andare oltre l’opera di Courbet. De Robertis mostra infatti qualcosa in più dell’organo che è all’origine della vita e lo fa in quanto contemporaneamente donna, artista e modella libera dall’oggettificazione del corpo operata tradizionalmente dall’uomo. Così reinterpretata, questa “origine del mondo” vivente non suscita il minimo desiderio di contemplazione, piuttosto destabilizza e imbarazza il suo pubblico, innescando ancora una volta una riflessione sul modo in cui la società tende spesso a guardare il corpo della donna.

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Le opere citate, afferenti alla sfera del femminismo, appaiono quindi come contraddistinte dall’intento di attivare nel fruitore un pensiero critico rispetto al ruolo della donna sia nell’ambito sociale che in quello più strettamente artistico. Ecco che i genitali femminili c’entrano con l’arte (eccome!) e, soprattutto a partire dagli anni Sessanta del Novecento, c’entrano nella misura in cui, ponendosi al servizio dell’arte, diventano un luogo simbolico di conflitti sociali e culturali, uno strumento di contestazione, un veicolo di idee e ideali nella lotta per l’emancipazione.

Verrebbe allora quasi marzullianamente da chiedersi: ha fatto più strada l’arte al servizio dell’emancipazione femminile o l’emancipazione femminile grazie all’arte?