Il velo islamico come segno di libertà

Di Elisa Belotti

Com’è indossare il velo islamico ogni giorno in Italia? Qual è il suo significato? In occasione del World hijab day, ne abbiamo parlato con Aya Mohamed, conosciuta online come Milan Pyramid, studentessa di scienze politiche, attivista e lavoratrice nel campo della moda.

Ciao Aya, benvenuta. Partirei con un chiarimento. Ci sono tanti nomi per indicare il velo che indossi. Quali sono i più usati dalla comunità musulmana italiana? Qual è il significato del velo?

Islamicamente parlando, con il velo si intendono due concetti diversi. Quando è stato introdotto, è stato pensato come segno di identità religiosa, perché le donne musulmane potessero essere riconosciute come tali. L’Islam è nato attorno al 600 in Arabia Saudita, la società era quasi tribale e al tempo convivevano diverse religioni. Far parte di una specifica tribù, soprattutto di quella più forte, significava essere protette. Inoltre il velo fa parte di un codice di abbigliamento che vale per uomini e donne, con caratteristiche diverse. 

La parola “hijab” non è usata nel Corano per riferirsi al velo, ma significa “separazione”. Per indicare il velo come capo d’abbigliamento si parla di “khimar”, un unico pezzo di tessuto che copre gran parte del corpo e lascia il viso scoperto. Oggi quando si parla del velo, anche a livello internazionale, si usa “hijab”, perché non indica solo la stoffa che copre i capelli ma un intero stile di vita. È un modo per esprimere la propria identità religiosa, un esercizio spirituale che ci mantiene legate a Dio e alla fede. Questa espressione identitaria è molto bella ed è un modo per riappropriarsi della propria cultura religiosa.

Poi ci sono tanti termini e tanti veli. Il hijab, il chador, il niqab che lascia scoperti gli occhi, il burqa che copre anche gli occhi. Queste differenze dipendono dalla regione geografica in cui ci si trova e dall’interpretazione religiosa. C’è molta libertà nella scelta di come adattare questa tradizione alla propria vita personale e a ciò che fa sentire a proprio agio.

Aya Mohamed

Le parole “islamico” e “musulmano” a volte vengono usate in modo scorretto. Che differenza c’è tra questi due aggettivi?

L’aggettivo islamico si riferisce ai luoghi, ai testi, ai paesi, non alle persone. Gli individui che seguono la religione dell’Islam, invece, sono detti musulmani. Un altro termine nato negli ultimi 10/15 anni è islamista. È stato coniato dall’agenda di destra per radicalizzare le persone musulmane associando la fede a parole come estremista, terrorista, etc. Non è un termine positivo.

Nell’Islam non si parla solo di indossare il velo, giusto? Ci sono anche altre norme legate all’abbigliamento. Ce ne puoi parlare così da avere una visione più completa?

Il codice di abbigliamento islamico è molto legato al senso di modestia, di sobrietà. Nel momento in cui decido di coprire il mio corpo, non lo rendo oggetto di sessualizzazione da parte della società. Facendo ciò si ritrova un grande senso di forza. Il mio corpo non è più nella posizione di essere criticato e giudicato. In generale nell’Islam si parla di abbigliamento modesto, non aderente, che non lascia evidenziare le forme e non trasparente.

Nella nostra società si criticano le donne quando sono molto vestite o svestite. Io credo che debbano essere libere di indossare ciò che vogliono e di esprimere la propria femminilità e la propria scelta di vita come preferiscono. Vestirsi o svestirsi sono scelte importanti quando nascono dalla persona e non andrebbero disapprovate.

C’è un’idea diffusa legata al velo: che sia richiesto alle donne per coprire un tratto che le rende belle, così da impedire loro di indurre gli uomini in tentazione. È davvero così per le persone musulmane?

Dipende molto da persona a persona e dalla propria interpretazione del velo e dell’Islam, ma io penso che non sia così. Noi crediamo che Dio sia bello e ami la bellezza. Quando nel Corano si parla di codici di abbigliamento, Dio parla di come gli uomini abbiano l’obbligo di abbassare lo sguardo davanti a una donna, quindi il problema non ricade su di lei, non si deve nascondere. Poi la motivazione della bellezza dietro il velo, se vera, dovrebbe valere per entrambi i sessi. Quindi se un ragazzo è bello si deve coprire, no? Non funziona. Il velo va al di là della bellezza, è una questione di identità. 

Dicevi che ci sono dei codici di abbigliamento speculari per gli uomini. Quali sono?

Sono tanti, ne cito solo alcuni. Gli uomini devono coprire il corpo dall’ombelico fino al ginocchio e non possono indossare gioielli d’oro. In alcuni passi si parla anche di specifici tagli di capelli, di coprire il capo, della lunghezza dell’abito. È importante però ampliare il discorso perché per l’Islam ci sono altre norme che valgono per gli uomini e non per le donne. Non ci si ferma solo all’abbigliamento.

In che senso la scelta di portare il velo può essere femminista? Ricordo un tuo video, in cui un gruppo di donne musulmane racconta il loro rapporto con il hijab. Mi ha colpita molto il modo in cui lo dipingono come un elemento chiave della propria identità.

Tutto ciò di cui abbiamo parlato fino ad ora dimostra che può essere femminista portare il velo. Noi in Italia pensiamo molto al femminismo come bianco, coloniale e spesso ridotto a un’unica visione, che non riesce a concepire altri concetti come validi e giusti. Dobbiamo capire però che il mondo non è solo europeo o occidentale. Ci sono tante etnie e religioni e quindi ci sono diverse idee di femminismo. Secondo me bisogna parlare di femminismo intersezionale, che riconosce e cerca di raggiungere la parità di genere in tanti campi e soprattutto per tutte le donne: bianche, asiatiche, nere, arabe, native, indigene. È importante ascoltare le donne, dare loro forza e riconoscere le loro scelte come valide.

Io credo davvero che indossare il velo sia una scelta femminista. Nel momento in cui vedo che la società attorno a me è capitalista e cerca di sfruttare le insicurezze delle donne relative al corpo per farne profitto, decido di riappropriarmi del mio corpo e sono io a stabilire chi può vederlo e cosa farne. Ciò non esclude chi decide di vivere il proprio femminismo in modo diverso. Anche queste sono scelte valide. Ognuna di noi prende una decisione nel momento in cui vive il proprio femminismo e tutto ciò fa parte del femminismo in generale.

Allo stesso tempo capisco anche la necessità delle correnti di pensiero europee di sradicarsi dalla tradizione cristiana. E queste modalità di azione portano spesso a una ipersessualizzazione del corpo femminile. È una versione valida ma non bisogna pensare che lo sia per tutte le donne.

Ricordo un bell’articolo dell’Huffington Post sul femminismo nell’Islam. Se noi andiamo a vedere la società araba pre e post Islam, notiamo che con l’introduzione di questa religione sono state fatte molte riforme a favore delle donne. Ad esempio prima dell’Islam quando nasceva una bambina si credeva che portasse disonore. Poi il profeta ha fatto un discorso dicendo che le bambine sono una benedizione per la famiglia. Ci sono molti elementi che rafforzano la posizione femminile nell’Islam e c’è tanta parità. Naturalmente io parlo della religione in sé. Mi si può ribattere che non è così nei paesi a maggioranza musulmana, ma va considerato che gli esseri umani non sono perfetti, sbagliano e queste dinamiche dipendono da questioni geopolitiche. Le situazioni dei singoli Stati non dipendono dal Corano. 

Tu lavori nel campo della moda. Qual è il rapporto tra la tua scelta di portare il hijab e la passione per questo settore?

Per me il rapporto tra questi due elementi è anche un’unione tra la mia religione e il fatto di essere una ragazza occidentale. Nell’abbigliamento trovo il modo di esprimere la mia identità sia religiosa che artistica e personale. Una cosa che a me piace molto della moda è che ha un grandissimo impatto politico e sociale: il modo in cui ti vesti trasmette un messaggio. Ad esempio, quando io cammino per strada con i jeans, la felpa e il velo, le persone capiscono che sono una ragazza musulmana e al tempo stesso occidentale. Anche il nome del mio canale, Milan Pyramid, è un’unione di queste due tradizioni. L’ho scelto perché volevo raccontare chi sono riportando la città in cui sono cresciuta (Milano) accanto a un simbolo forte delle mie origini (l’Egitto).

Com’è cambiata la tua vita da quando hai messo il velo? Ti sei accorta che chi non lo porta ha dei privilegi diversi?

In Italia sfortunatamente le ragazze che portano il velo hanno grande difficoltà a trovare lavoro, una casa in affitto, etc. È come se la società ci dicesse che nel momento in cui sei musulmana va bene, ma quando indossi il velo è come se non andasse più bene. Io penso però che la laicità non sia il rifiuto delle religioni ma la loro accettazione e in Italia, in quanto paese laico, tutte dovrebbero essere rispettate.

Quali sono le principali difficoltà che riscontri nel conciliare la tua fede con la società in cui vivi e il tuo essere femminista? 

Solo ultimamente mi sto scontrando con le difficoltà che come musulmana praticante riscontro in Italia. La burocrazia, ad esempio, ostacola la presenza delle moschee – in Italia, infatti, ci sono solo due moschee riconosciute – e già questo è un problema. Se non si ha un luogo di culto, manca anche un punto di riferimento per la comunità. Poi nelle università non abbiamo una sala per la preghiera o la riflessione, mentre a livello europeo, negli USA e in Canada ci sono degli spazi di questo tipo. La comunità musulmana in Italia è molto precaria, siamo ancora alle prime generazioni. In Inghilterra, ad esempio, sono alla quinta generazione e si stanno ponendo dei problemi, come l’introduzione delle carni halal nei supermercati, che per noi sono davvero avanti, dato che dobbiamo ancora rivendicare le basi per la nostra fede. Stiamo cercando di rompere quei muri che rendono l’atmosfera ostile attorno alle comunità musulmane.

Per quanto riguarda il femminismo, credo che le ragazze come me che nel 2021 sono musulmane, praticanti e femministe vivano due problemi: la società non le considera femministe e lo scontro con la comunità musulmana che è patriarcale. Va ricordato che questo aspetto della religione non è proprio della fede, ma deriva dalla società in cui essa si è sviluppata.

Il 1° febbraio è il World hijab day, un’ottima occasione per parlare delle donne nell’Islam. La Giornata è nata da un’idea di Nazma Khan, che invita le donne, di qualsiasi credo religioso, a portare il velo per un giorno. Che cosa pensi di questa proposta?

Mi piace tantissimo questa idea. Indossarlo una giornata intera è utile per capire come, con il hijab, non sei più invisibile. Le persone ti trattano in maniera diversa, quando cammini per strada si girano verso di te, ti associano a una loro idea di donna musulmana. Sarebbe interessante anche vedere la reazione dei familiari.

Ci indichi altre donne musulmane che portano il velo di cui ascoltare la testimonianza?

Certo! Mi viene in mente Linda Sarsur, attivista americana e tra le organizzatrici della marcia delle donne su Washington del 2016. Poi Ilhan Omar, che è arrivata negli USA come rifugiata e ora fa parte della Camera dei Rappresentanti per il Minnesota, e Sumaya Abdel Qader, consigliera comunale di Milano. Infine Tasnim Ali, che sui suoi profili social ha invitato anche le donne non musulmane a provare il velo per capire come vive chi lo indossa.