‘Nomadland’: Le persone scappano da o verso qualcosa?

Di Alessia Casteni

Due settimane fa, dopo praticamente due anni di astinenza dalla sala, sono ritornata al cinema.
Ho scelto  il film ‘Nomadland’, ero davvero curiosa di guardare questo lungometraggio, vincitore di ben 3 Oscar a partire dalle 6 nomination iniziali.

Mettendo da parte l’ovvia emozione di tornare a essere  pubblico davanti a uno schermo così grande e senza le classiche interruzioni casalinghe (cellulare, citofono, gatto, scappate in cucina per qualche snack) devo ammettere che ho trovato la storia  di Fern, la protagonista, davvero magnetica.

Fern, interpretata da Frances McDormand, è una donna ormai sessantenne che in seguito alla Grande Recessione statunitense e alla morte del marito comincia una vita nomade a bordo del suo van.
La vita di Fern è piena di difficoltà ma anche di libertà. Svolge lavori stagionali che le permettono di avere i soldi appena necessari per il cibo e la benzina.
È spartana e ben organizzata ma custodisce dentro di sé un passato di ricordi belli e dolorosi.
‘Nomadland’ è la storia degli incontri di Fern nel suo cammino su quattro ruote che è anche cammino interiore. 
Per quanto incompresa da molti, quella di Fern è una scelta che non deriva da una mancanza di opportunità ma dalla forte presa di coscienza che il transitorio e il paesaggio in movimento possono essere la sua unica casa. La regista, Chloé Zhao, riesce molto bene a raccontare questo approccio alla vita. Lei stessa, racconta in alcune interviste, si riconosce come un’outsider perché asiatico-americana a Hollywood ma anche per la sua indole solitaria che la porta a vedere nel set la sua casa, quella dove può dimenticare i problemi che la affliggono.

Raccontare di nomadi, differenti dai senzatetto, come esplicitato anche in uno scambio di battute nel film (dal momento che Fern una casa ce l’ha, anche se a quattro ruote), è veramente simbolico, a ridosso di una pandemia che ci ha costretti, nel migliore dei casi, a diventare prigionieri delle nostre abitazioni.

Qualcuno di noi di indole più solitaria, con una famiglia affiatata o grandi spazi a disposizione ne ha fatto il proprio rifugio. Per altri, la casa è diventata prigione, famiglie numerose stipate in mini appartamenti, coppie in crisi, casi di violenze domestiche. La pandemia ha puntato un occhio di bue sull’istituzione casa e l’ha smembrata: casa= famiglia, casa= caverna, casa= prigione…casa=? Siamo arrivati a domandarci cosa significasse questo spazio per noi e fino a che punto fosse in grado di rappresentarci, comprenderci, accoglierci.

Fern dopo aver preso la decisione di lasciarsi alle spalle la sua vita stanziale ad Empire, torna su questa tematica quando incontra Dave, un possibile compagno tra i nomadi della comunità viaggiante in cui è arrivata.  L’ offerta inaspettata di stabilità da parte di Dave però (a cui nel frattempo pare essersi legata) non sarà ideale per lei. La sequenza dei fatti potrebbe a questo punto destabilizzare chi si aspettava che questo pellegrinare inquieto della protagonista dovesse avere una destinazione.

Questo film e  il suo finale aprono molti interrogativi. Fern è davvero libera? La natura e la solitudine sono abbastanza per regalarle quella pace intorno di cui ha bisogno?
Questo suo modo di vivere, scegliendo di non legarsi a nessuno, si può interpretare in fondo come un rifiuto alla vita? Il bello della pellicola per me è stato proprio l’invito ad una lunga serie di riflessioni, non ultima anche quella sulla società americana contemporanea e sui valori condivisi da un nutrito gruppo di nomadi di diverse età e con vite diverse alle spalle. Comunità di vandweller, letteralmente ‘abitanti dei furgoni’, costretti a scegliere questo stile di vita perlopiù a causa delle difficoltà economiche che sono il movente maggiore del nuovo nomadismo statunitense. Molti di loro fanno parte della ex media borghesia che ha lavorato per tutta la vita senza riuscire a guadagnarsi una pensione. Scegliendo il nomadismo non hanno un indirizzo stabile e quindi diventano invisibili, non esistono per le assicurazioni sanitarie. Campeggiano nei parcheggi dei centri commerciali e si accampano in zone desertiche poco raggiungibili o nelle riserve naturalistiche dove lavorano come camping host (custodi tuttofare).
Parte dei personaggi che compaiono nel lungometraggio fanno realmente parte di queste comunità. Charlene Swankie, Bob Wells e Linda May sono alcuni esempi. Selezionati per il film con una spinta al realismo che rende la storia e i fatti narrati ancora più vividi. Il popolo dei vandweller si identifica nel prototipo del baby boomer, spesso con sogni in grande, come la costruzione di una Earthship (casa ecologica) o semplicemente la voglia di trascorrere in questo modo il resto della vita. I nuovi nomadi statunitensi però sono solo bianchi e questo evidenzia un ‘white privilege’ che persiste anche all’interno delle cultura nomade.

Il film è l’adattamento del libro di inchiesta della giornalista Jessica Bruder, nota per i suoi reportage sulle nuove subculture statunitensi e la loro espansione. Lo sguardo prettamente femminile che ha portato alle riprese a partire dal lavoro della Bruder, alla regia di Chloé Zhao , prima donna asiatica a vincere l’Oscar come Miglior Regia, passando per la magistrale interpretazione di Frances McDormand penso sia un dettaglio degno di essere rimarcato in una società come la nostra che vede ancora le donne troppo spesso sottorappresentate nel mondo del lavoro sebbene più istruite.

‘Le persone scappano da o verso qualcosa? Penso entrambe le cose’ conclude Jessica Bruder.