Periferia a state of mind e le Tent Olympics

Di Elena Esposto

Sono nata e cresciuta in una regione di frontiera, dove il confine è scritto nella gente ancora prima di essere una riga tratteggiata sulla cartina. Una regione bilingue, che ha visto diversi domini, che ha fatto parte di un impero multiculturale e multilingue. Mia nonna paterna era di madrelingua tedesca, nata in un paesino della Val Venosta quando ancora l’Impero Austro Ungarico si estendeva fino a Borghetto, dove ancora oggi un vecchio detto popolare un po’ razzista colloca il confine con il “sud”. La migliore amica della mia nonna materna venne sfollata in Boemia (anch’essa parte dell’impero) durante la prima guerra mondiale. I profughi partirono con pochi averi e qualche animale domestico, e tornarono portando usanze e ricette che poi sono passate di generazione in generazione.

Forse è per questo che ho sempre amato le periferie perché condividono con le regioni di confine lo stesso destino. La lontananza dai centri del potere e dell’economia, la permeabilità, il passaggio di merci, persone, lingue, culture, una discreta autonomia per poter decidere per sé.

Per caso o per scelta la periferia mi ha sempre chiamata a sé. Ho vissuto nelle periferie di Milano e di Amsterdam, quartieri di immigrazione, zone multiculturali, multilingue e multicolori. Ho vissuto nelle favelas di Rio de Janeiro, periferie per eccellenza, dove i confini sono ovunque, invisibili ma determinanti nella vita delle persone. E poi in Ungheria, a venti chilometri dal confine rumeno, in una città da dove passa il treno per Bucarest sul quale la voce registrata dice il nome delle stazioni in ungherese e in rumeno. E anche in Libano, nella regione del Kesrouane, che sebbene sia nel centro del paese è zona di passaggio di carovane di beduini e di profughi siriani, e arrampicandosi sulle strade di montagna si arriva alla zona desertica dove ancora oggi abitano e si spostano i popoli nomadi.

Per la maggior parte sono tutte zone in cui non va nemmeno l’omino di Google Maps e parecchie volte mi sono chiesta perché mi interessassero tanto, perché avessi questa predilezione per luoghi e situazioni a cui altre persone non rivolgerebbero l’attenzione neanche per cinque minuti.
Forse è perché il luogo dove sono nata, la mia famiglia, la mia storia mi hanno inciso dentro lo spirito della frontiera o forse è perché ho un debole per le storie, e da nessun’altra parte ne ho trovate di così interessanti e autentiche come nelle periferie del mondo. Ecco perché questa rubrica, uno spazio mensile per raccontare storie che vengono dagli angoli più remoti del mondo, o anche da dietro l’angolo, magari vissute da persone di cui non conosciamo l’esistenza. Perché la periferia non è solo un luogo geografico, ma anche culturale, sociale, psicologico. Per me la periferia è un vero e proprio state of mind, e spero che dopo questa (lunga) introduzione avrete voglia di seguirmi in questo viaggio.


Nella regione di Idlib, nel nord est della Siria, vivono circa 3,4 milioni di persone delle quali ben due milioni sono rifugiati della guerra civile scoppiata nel Paese nel 2011. L’ottanta percento sono donne e bambini.
La regione, controllata dall’alleanza dei militanti islamisti Hay’at Tahrir al-Sham, è descritta come un limbo violento, dove imperano la povertà e la paura. Schiacciata verso il confine turco, la regione vive sotto la costante minaccia di un attacco del governo di Erdogan che cerca in tutti i modi di evitare che i profughi attraversino la frontiera; inoltre, nell’area sono presenti anche altri gruppi militanti e ribelli una volta collegati ad Al-Quaeda.
È qui che si trova il campo di Al-Yaman dove il 7 agosto, il giorno prima della fine delle Olimpiadi di Tokyo, si sono radunati 120 bambini tra gli 8 e i 14 anni provenienti da dodici campi della zona per le “Tent Olympics”, dei mini giochi olimpici organizzati dalla Violet Organization, una ONG che da anni offre aiuti umanitari nel Nordest della Siria.

L’obiettivo della competizione, come ha raccontato Ibrahim Sarmini, direttore del programma di protezione della ONG, era quella di dare un incoraggiamento e una speranza alle persone e ai bambini che vivono nei campi, le cui condizioni di vita sono state rese ancora più difficili dalla pandemia di Covid, dal maltempo che ha colpito la regione durante l’inverno e dall’escalation di violenza che il governo di Assad ha scatenato contro i ribelli che si nascondono nell’area.

Riguardo agli atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi di Tokyo, inoltre, Sarmini ha affermato che, al di fuori dei siriani che hanno gareggiato con l’Olympic Refugee Team, gli altri “hanno partecipato in nome del regime e non ci rappresentano affatto. Non sono nemmeno riuscito a guardarli in TV, perché il regime è la causa principale del fatto che ci sono persone nei campi. Io cerco di migliorare le capacità dei bambini di essere resilienti, a imparare cose sulle altre culture e concentrarsi sulla creatività nel futuro. Questo potrebbe aprire nuove prospettive per un buon futuro in Siria. I bambini che hanno partecipato alle Tent Olympics hanno giocato per vincere delle vere medaglie e sono stati acclamati da altri bambini in un’atmosfera piena di gioia”.

Tra gli sport nei quali i bambini si sono cimentati c’erano il lancio del giavellotto, il salto agli ostacoli, il salto in lungo, la corsa (in brevi piste disegnate tra le tende), la ginnastica, le arti marziali, la pallavolo, il badminton e il calcio.
I ragazzi che hanno partecipato non hanno solo gareggiato, ma sono stati anche coinvolti nella preparazione dell’evento, hanno predisposto le aree in cui si sarebbero svolte le competizioni e disegnato i contorni dello stadio proprio come a Tokyo.
Divisi per campo di provenienza ogni bambino ha giocato indossando l’uniforme della sua squadra in un clima fi festosa competizione.
Gli organizzatori della Violet Organization sono rimasti favorevolmente colpiti dalla numerosa partecipazione e dai visibili effetti positivi che i Tent Olympics hanno avuto sui bambini, tanto che hanno deciso di ripetere l’iniziativa in occasione dei mondiali di calcio.

Dal 2011 ad oggi si stima che la guerra civile siriana abbia prodotto ben 5,5 milioni di profughi che sono stati costretti a lasciare le loro case e le loro famiglie e, di questi, il quaranta percento meno di 11 anni. Forse alcuni potranno pensare che per dei bambini costretti a vivere in una situazione del genere un mini torneo olimpico sia ben poca cosa ma, per molti di loro, aver potuto dimenticare la guerra e la paura anche solo per un paio d’ore ha aperto uno spiraglio di speranza e la visione di un possibile futuro migliore.