Se il femminismo diventa imperialista. Perché la vicenda afghana ha molto da insegnarci.

Se il femminismo diventa imperialista. Perché la vicenda afghana ha molto da insegnarci.
Di Elena Esposto

Quando vivevo a Rio de Janeiro alcune attiviste femministe afro-discendenti una volta mi dissero: “Per le donne nere l’emancipazione è stata molto più difficile. Abbiamo dovuto liberarci dall’oppressione degli uomini (bianchi e neri) e da quella delle donne bianche”.
Ci sono voluti anni prima che capissi che tra quelle “donne bianche” rientravano anche molte femministe.

Il 1° febbraio di quest’anno, in occasione del World Hijab Day sul nostro blog è uscita un’intervista a Aya Mohamed, che si dichiara musulmana, praticante e femminista e parlava del velo come simbolo di libertà.
Questo articolo ha circolato non solo sui nostri social, ma anche in qualche gruppo Facebook femminista (o presunto tale) dove ha ricevuto un’accoglienza poco calorosa, quando non apertamente aggressiva. In breve, siamo state informate che indossare il velo islamico non può in nessun caso essere simbolo di libertà femminista. Sentenza definitiva, senza possibilità di appello.

Lasciamo per un momento da parte le tematiche velo/islam e soffermiamoci piuttosto su un dato, che sarà anche il presupposto di questa riflessione. Forse a moltƏ sembrerà un’ovvietà ma il punto è che non esiste un solo femminismo.
Si potrebbe arrivare a dire che ci sono tanti femminismi quante sono le femministe, ma forse sarebbe un’affermazione troppo complessa da spiegare.

Limitiamoci qui ad accettare il fatto che quello che noi bianchƏ, occidentali, borghesi siamo abituatƏ a considerare “il femminismo” in realtà è solo uno dei tanti femminismi possibili e, concedetemelo, neanche sempre il migliore.

Arrogarsi il diritto di spiegare alle altre donne il modo giusto per liberarsi dall’oppressione non è solo arrogante, ma anche estremamente controproducente.
Come scrive Jessa Crispin nel suo saggio “Perché non sono femminista. Un manifesto femminista”: “Il nostro compito, come femministe, non dovrebbe essere reclutare. Non dovrebbe essere convertire. Dovrebbe essere ascoltare i bisogni e le esigenze delle donne, che potrebbero anche differire dai nostri.”
E ancora: “Quello che ci vorrebbe è una discussione su come le donne meno avvantaggiate di noi (o che vivono in paesi e culture diverse) sono oppresse dalle cose che a nostro avviso ci rendono più libere”.

Deporre gli occhiali del privilegio e riuscire a vedere il mondo con gli occhi dellƏ altrƏ è difficilissimo, me ne rendo conto, ma questo non vuol dire che non si debba provarci. Purtroppo la storia occidentale su questo ha davvero poco da insegnarci.
Nessuna ha saputo spiegare meglio le intime interconnessioni tra diverse forme di oppressione di Angela Davis nel suo “Women, race and class”, un grande classico del femminismo.

Il sessismo, il razzismo, il colonialismo, l’imperialismo, lo sfruttamento capitalista, sono tutte forme di oppressione interconnesse e che si alimentano tra loro e hanno alla base la falsa concezione di una gerarchia sociale e naturale dove alcuni gruppi sono superiori e altri inferiori, e il diritto quasi divino dei primi di governare sui secondi. Proprio per questo la lotta contro l’oppressione va combattuta su tutti i fronti contemporaneamente, e non è possibile gestirne un aspetto alla volta.

La battaglia femminista è sterile se poi si sposano le dinamiche del patriarcato e dell’imperialismo che portano a decidere per le altre donne che cosa è oppressione e che cosa bisogna fare per liberarsi.
Qualcosa di molto simile lo abbiamo visto nella recente vicenda afghana, quando tra l’attonimento generale per quello che stava accadendo si sono levati i cori che proclamavano la necessità “liberare le donne afghane”.

Il ritornello (molto simile a quello invocato a favore dell’invasione dello stesso Afghanistan nel 2001, dell’Iraq nel 2003 e più o meno in tutte le recenti guerre che portavano avanti il sogno di una democrazia esportabile, ma erano solo belle facciate per un nuovo tipo di imperialismo) nasconde neanche troppo velatamente l’idea che le donne afghane (ma sarebbero potute essere indonesiane, somale o nicaraguensi per quello che conta) non siano in grado di liberarsi da sole, che siano là, inermi ad aspettare il loro destino sperando che qualcuno venga a salvarle. Una specie di versione meno romantica della Bella addormentata nel bosco.

Sappiamo che non è così e ce lo hanno dimostrato, se ce ne fosse stato bisogno, le proteste delle donne a Herat e Kabul nelle prime settimane di settembre. In Afghanistan, poi, esistono da tempo reti e associazioni femministe che lottano per diritti e parità, come ad esempio la Revolutionary Association of the Women of Afghanistan fondata nel 1977 da Meena Keshwar Kamal e altre intellettuali e femministe afghane che si battevano per i diritti e l’eguaglianza delle donne.
Insomma, le donne afghane non hanno bisogno di essere salvate, men che meno con un approccio imperialista che replica le dinamiche patriarcali.
Come ha scritto Rafia Zakaria sul The Nation:

Il femminismo bianco è un femminismo calato dall’alto, e non tratta con sufficienza solo le donne afgane: le nere, le latine, le asiatiche e altre donne non bianche hanno difficoltà a entrare nei circoli dove si prendono le decisioni politiche perché le loro esperienze femministe – sopravvivere come madri single, lavorare in fabbrica o sopportare anni di discriminazione razziale – sono considerate irrilevanti. I ruoli preminenti vanno a donne bianche d’élite che hanno fatto carriera, ed escludono quelle stesse donne che in teoria vorrebbero aiutare.
Molti degli aspiranti salvatori bianchi delle donne afgane stanno ora affermando, con la stessa ostinata e deliberata cecità che li ha portati a sostenere l’imperialismo statunitense, che gli Stati Uniti avrebbero dovuto mantenere i loro militari nel paese per proteggere le donne afgane.

Questo però non significa che possiamo lavarcene le mani o far finta che nulla stia accadendo. La necessità di mettersi in ascolto di realtà diverse dalle nostre fa parte di una strategia più ampia di lotta che vede alla base la sorellanza internazionale.
Credere che le donne afghane non abbiano bisogno di essere salvate non significa non avere il dovere di sostenerle nella loro lotta, ma significa riconoscere che la liberazione, come l’oppressione, ha molte forme e ciascunƏ deve poter decidere per sé. Significa riconoscere che non esiste una soluzione univoca e preconfezionata, ma che la lotta e il femminismo vanno calati in contesti culturali e sociali specifici.
Per noi occidentali (bianchƏ, borghesi) significa anche mettere da parte l’arroganza, la pretesa di sapere che cosa è meglio per le altrƏ e gli atteggiamenti escludenti che creano solo divisioni.

La lotta all’oppressione, in qualsiasi forma essa si presenti, necessita di tutte le forze che riusciamo a mettere in campo, e per vincere dobbiamo restare unitƏ. UnitƏ ma non uniformatƏ, ciascunƏ con la propria esperienza di vita, il proprio bagaglio culturale e la propria unicità.