Il mito della verginità

Di Martina Boselli

Il termine verginità indica la condizione di chi non ha avuto rapporti sessuali completi. Nell’accezione comune il vocabolo è riferito in particolare alla condizione della donna prima della deflorazione, cioè della perdita dell’integrità dell’imene. Al di là della connotazione biologica, il concetto di verginità implica importanti significati sociali e culturali.

Vi starete domandando se questa aberrante definizione non arrivi dritta dritta dal Malleus Maleficarum, il famoso trattato latino contenente istruzioni per combattere eresie e stregoneria. Ebbene, in realtà è stata presa dall’Enciclopedia Treccani. È pur vero che quest’ultima ha già avuto modo, negli ultimi anni, di distinguersi per riferimenti sessisti (nel marzo di quest’anno è stata infatti accusata di sessismo e misoginia quando, insieme al termine “donna” indicava sinonimi quali “cagna” o “serva”, forse l’ennesima dimostrazione di come il linguaggio rivesta un ruolo fondamentale nella percezione di ciò che accade intorno a noi e nel modo in cui etichettiamo il mondo).

Nell’immaginario collettivo si figurano prime volte insanguinate su lenzuola bianche a testimonianza della purezza di una persona mai stata “deflorata” (per citare Treccani) prima d’ora. Personalmente, la scoperta dell’inesistenza dell’imene è stata per me tremendamente recente.

Non esiste nessuna barriera pronta a lacerarsi mostrando a tutti che non sei più innocente. L’imene non è solito rompersi, e tanto meno una visita può stabilire che cosa lo abbia effettivamente attraversato.
E il famoso sangue pronto a sancire la primarietà del rapporto, allora? Come spiega (sicuramente meglio di me) l’ostetrica Violeta Benini su Instagram, dove è più conosciuta con il nickname “Divulvatrice”, in questi casi si tratta di capillari delle mucose che si rompono causando così una perdita ematica dovuta, perlappunto, alla poca elasticità delle pareti del canale. Esistono imeni di diverse forme, dimensioni, flessibilità. E nessuno di questi è sbagliato.
Capite quindi che, alla luce di quanto descritto, leggere tra i primi risultati di ricerca questa definizione di verginità è quantomeno anacronistico. Ancora più anacronistica è quindi la prospettiva che esista effettivamente un test per stabilire la verginità di qualcun*.

Quanto descritto è però estremamente reale: il test viene effettuato da un* ginecolog* (se si è “fortunat*”) inserendo due dita in vagina, cercando di stabilirne la rilassatezza/elasticità e se l’imene sia ancora presente ed intatto.
Una pratica violenta, ai limiti della coercizione e senza alcun fondamento scientifico, formalmente abolita nel 2010 ma tutt’ora ancora utilizzata in molti paesi. Uno studio del 2004 ha stabilito che, su un test eseguito su 36 pazienti teenager incinte, solo su due di queste vennero trovati effettivi segni di penetrazione. Forse è più facile credere all’immacolata concezione?

Se è pur vero che la pratica è (sulla carta) sulla via dell’abolizione, il mito della verginità resta forte ed incredibilmente presente anche ai giorni nostri.

Come Nina Dølvik Brochmann and Ellen Støkken Dahl raccontano in un TEDTalk, l’idea stessa di verginità nasce da due miti che, sebbene già considerati come tali già da un centinaio di anni, continuano a perdurare nell’immaginario collettivo.
Il primo riguarda, per l’appunto, il sangue. Niente sangue dopo un rapporto significa la non-verginità della persona. Da questo deriva, per logica, il secondo che riguarda invece direttamente l’imene, che dovrebbe appunto mutare dopo il primo rapporto penetrativo.
Perché dovremmo preoccuparci di una “piccola piega oscura del corpo femminile” (come la definiscono le oratrici stesse)? Perché la sua valenza va ben oltre, si tratta di una valenza culturale, uno strumento di potere utilizzato (e questo non vi suonerà come una novità) per il controllo del corpo femminile.

D’altronde la chiesa cattolica ha già cercato di dircelo nei modi più disparati, la donna è accettata purché sia madre, ancora meglio se madre vergine. Madre e vergine, un modello impossibile: è importante realizzare come certe narrazioni, che hanno radici profondissime in noi, hanno inciso inevitabilmente sulla considerazione di quello che consideriamo giusto e sbagliato, sacro e profano. Un modello di donna docile ed obbediente a cui aspirare, un esempio di virtuosa tolleranza e sopportazione al servizio di qualcun altro.

Ne parla ampiamente Valenti in The Purity Myth, libro dal quale coglierei spunto per chiudere con una sua citazione:

Girls “going wild” aren’t damaging a generation of women, the myth of sexual purity is. The lie of virginity—the idea that such a thing even exists—is ensuring that young women’s perception of themselves is inextricable from their bodies, and that their ability to be moral actors is absolutely dependent on their sexuality. It’s time to teach our daughters that their ability to be good people depends on their being good people , not on whether or not they’re sexually active…so while young women are subject to overt sexual messages everyday, they’re simultaneously being taught—by the people who are supposed to care for their personal and moral development, no less—that their only real worth is their virginity and ability to remain “pure”.

Le ragazze che “si scatenano” non stanno danneggiando una generazione di donne, il mito della purezza sessuale invece sì. La menzogna della verginità – l’idea che una cosa del genere esista – garantisce che la percezione che le giovani donne hanno di loro stesse  sia inestricabile dai loro corpi e che la loro capacità di essere attori morali dipenda assolutamente dalla loro sessualità. È tempo di insegnare alle nostre figlie che la loro capacità di essere brave persone dipende dal loro essere brave persone, non dal fatto che siano sessualmente attive o meno… quindi mentre le giovani donne sono soggette a messaggi sessuali espliciti ogni giorno, contemporaneamente viene loro insegnato –  dalle persone che dovrebbero prendersi cura del loro sviluppo personale e morale,  – che il loro unico vero valore è la loro verginità e la capacità di rimanere “pure”.