Donne in veterinaria, una maggioranza svantaggiata

Di Sofia Brizio

Nota linguistica: Nelle fonti usate per questo articolo compare spesso la dicitura ‘donne veterinarie’. Ho preferito evitarla dove possibile perché a parer mio è ridondante e, pur volendo enfatizzare, finisce per rinforzare la difficoltà culturale del declinare le professioni al femminile, di cui parlo anche nell’articolo. E’ una scelta personale che non vuole in alcun modo sminuire le osservazioni e i contributi di chi invece la preferisce.

È noto che si parli molto poco di donne impegnate in professioni mediche e scientifiche, ma delle donne in veterinaria si parla ancora meno. Eppure, da un’indagine condotta lo scorso anno dall’Associazione nazionale dei medici veterinari italiani (ANMVI) emerge che le donne costituiscono la maggioranza (quasi il 52%) del mondo veterinario nel nostro Paese. Ciononostante, soltanto due donne su dieci arrivano a ricoprire ruoli di vertice nel corso della loro carriera e più della metà sono insoddisfatte del proprio stipendio e del poco tempo da dedicare a famiglia e vita al di fuori del lavoro. La maggior parte delle veterinarie interpellate nel sondaggio sono libere professioniste, perlopiù impegnate in prestazioni ambulatoriali su animali domestici.

Raramente vengono prese in considerazione le veterinarie nel servizio pubblico e nella ricerca, che è forse il settore più incline a discriminazioni di genere. «Il numero di veterinarie donne è sicuramente aumentato negli ultimi quarant’anni,» mi ha detto una veterinaria che ho intervistato per questo articolo. «Oggi, a differenza di quando io ho iniziato gli studi, la donna trova spazio anche in specializzazioni come buiatri e ippiatri, che una volta le erano preclusi. [C’era] diffidenza da parte degli allevatori per via dei soliti luoghi comuni: “è una donna, è piccola, non ha la forza [fisica]…” eccetera.»

«In ambito pubblico (Servizio Sanitario Nazionale, Istituto Superiore di Sanità, Istituti Zooprofilattici, Ministero della Salute, Regioni) la veterinaria ha ora maggiori possibilità di ricoprire ruoli apicali, ma il conferimento di questi incarichi avviene quando la donna ha superato le difficoltà di gestione della famiglia [ad esempio non ha più figli a carico]. Oggi ci sono più donne che ricoprono le cariche di Direttrici sanitarie, Direttrici generali e di strutture complesse, ma sono sempre molto inferiori agli uomini.»

In effetti, dal sondaggio ANMVI è emerso anche che il 66% delle donne intervistate ha sperimentato discriminazione legata a pregiudizi sulle capacità professionali e alla resistenza a guardare la donna come figura autoritaria anziché ausiliaria. Questa disparità di genere si nota anche nella reticenza a declinare i ruoli di vertice al femminile nella maggior parte delle professioni. Quella che a molti può sembrare una sottigliezza, in realtà rivela molto riguardo alla nostra società e quanta strada ci sia ancora da fare per raggiungere la parità. Purtroppo, ci sono ancora molti ostacoli di natura culturale, come ha confermato l’intervistata: «Persino in ambito pubblico esiste una preferenza, anche se non palesata, per assumere uomini e non donne, per le solite ragioni: la donna potrebbe volersi sposare, fare figli, e poi dover stare a casa con i bambini quando si ammalano eccetera. È un retaggio culturale che la società fatica a superare perché non sostiene la donna in tutto quello che ruota attorno alla gestione della vita familiare o della maternità, senza che il ruolo di madre vada a interferire con il lavoro.»

Avere più donne che ricoprano ruoli di vertice sarebbe vantaggioso per tutti, soprattutto per le donne a inizio carriera che forse godrebbero di maggiore sensibilità e comprensione da parte dei loro superiori. «Purtroppo, spesso anche gli uomini [in posizioni manageriali] che hanno dei figli si dimenticano che anche loro hanno una famiglia, che le loro mogli sono state a casa dal lavoro in maternità e per necessità dei figli e magari hanno anche usufruito di periodi di aspettativa.»

Per tutelare i diritti delle veterinarie e per far sì che possano trovare un equilibrio tra vita privata e professionale, nel 2019 è nata L’Associazione Donne Medico Veterinario (ADMV), alla quale possono aderire tutte le donne laureate in medicina veterinaria. “L’associazione si prefigge, in collaborazione con il mondo veterinario tutto, di sviluppare contesti in cui le donne veterinarie possano esprimere pienamente il proprio potenziale, promuovendo la collaborazione e il supporto reciproco tra di noi, le iniziative a tutela del nostro lavoro all’interno della nostra professione, la costruzione di percorsi volti alla crescita della persona e gestione dell’attività, lo sviluppo di progetti di sostegno alla maternità e alla gestione familiare.” Sebbene ancora giovane, l’associazione si batte con successo per questioni quali l’equità salariale e la salute mentale delle veterinarie, le quali in Europa soffrono di stress, esaurimento e ‘compassion fatigue’ in percentuale superiore ai colleghi uomini.

Le veterinarie restano senza dubbio una maggioranza svantaggiata in un ambito professionale restio al cambiamento, ma l’apertura di un dialogo da parte di associazioni come ADMV è un segnale positivo per il futuro, soprattutto per il numero sempre crescente di giovani donne che scelgono di dedicarsi agli animali.