“Quartieri”. Un nuovo paradigma per la periferia.
Di Elena Esposto
Sono nata in centro e cresciuta in periferia, ammesso che questo genere di categorie abbiano senso in una cittadina che non arriva nemmeno a quarantamila abitanti.
Comunque sia il quartiere della mia adolescenza, l’ultimo al limitare della città, noi lo chiamavamo “Bronx”, con un certo orgoglio da insider perché nessun altro, che non vivesse o non passasse molto tempo nel quartiere, poteva chiamarlo così.
Era, e rimane, un quartiere residenziale. Famiglie, bambini, cani a passeggio, il parco giochi, la scuola, la parrocchia e il centro anziani. Un paio di bar dubbi, un tatuatore che ci sembrava molto losco e palazzoni di a malapena otto piani che a noi apparivano imponenti grattacieli (e chissà che cose tremende si consumavano dietro quelle finestre che sembravano spiarci come occhi vuoti). Chiamarlo “Bronx” ci dava un senso di spericolatezza che non avevamo mai provato nelle nostre brevi vite.
Nel Bronx non succedeva mai nulla e non c’era nulla da fare né nulla di interessante a cui assistere. Niente risse, niente sparatorie, niente prostituzione e (forse) niente spaccio. Solo l’illusione che potesse succederci qualcosa che valeva la pena di raccontare, per il semplice motivo di trovarsi ai margini della città.
Nella mia vita da adulta, poi, ho sperimentato davvero la spericolatezza (e talvolta anche il pericolo, vero o presunto non lo saprò mai) delle periferie. A Milano, a Rio de Janeiro, a Beirut e ad Amsterdam.
Quartieri che erano davvero marginali, non sempre geograficamente. Ho visto e vissuto la marginalità economica, sociale. Quartieri degradati dove da un momento all’altro potevi restare senza acqua o gas, dove fuori dalla tua porta le bande criminali si contendevano il territorio a suon di sparatorie, quartieri di immigrazione, quartieri (apparentemente) senza prospettive.
Quelli sono stati i posti dove, più di ogni altri, mi sono sentita a casa. Dove la città non era a prova di turista, dove c’era caos e disordine, dove la vita non era edulcorata e l’umanità autentica.
Secondo i dati di UN-Habitat quasi il 60% della popolazione mondiale vive in città. Di questi nel 2018 il 24% viveva in slum o altri agglomerati informali, che altro non sono che una porzione di ciò che potremmo chiamare “periferie”.
Ci sono molti modi di definire “periferia”. Nell’accezione classica è tutto ciò che non è centro geograficamente parlando, ma se spostiamo il focus su altri tipi di centralità, quella economica, sociale o politica, vedremo che anche i territori cosiddetti periferici si muoveranno di conseguenza.
A Rio de Janeiro, ad esempio, i territori marginali chiamati favelas si trovano spesso incastonati tra i quartieri più ricchi della città. Il loro essere periferie non ha nulla a che vedere con la geografia ma con la distribuzione della ricchezza, la disponibilità di servizi pubblici, la stratificazione sociale ed etnica della popolazione. Dinamiche legate alla discriminazione razziale e classista più che territoriale.
Quello che chi bolla le periferie come luoghi inospitali e pericolosi in cui non è prudente mettere piede fatica a comprendere è l’incredibile bellezza che esse portano con sé. Una bellezza che, come spesso accade a chi si trova ai margini, non rientra nei canoni estetici tradizionali e viene difficilmente compresa.
È una bellezza umana, fatta di relazioni, di identità diverse che si incontrano o di identità in divenire, non ancora scoperte né compiute. Una bellezza profonda, perché non ci sono risorse per occuparsi della superficie o forse proprio perché la superficie alla fine non conta nulla.
È questa la bellezza sulla quale si concentra il fumetto “Quartieri. Viaggio al centro delle periferie italiane” il fumetto edito da Beccogiallo a cura di Adriano Cancellieri e Giada Peterle.
Questo libro è davvero un viaggio tra cinque quartieri periferici, San Siro a Milano, Arcella a Padova, Bolognina a Bologna, Tor Bella Monaca a Roma e Zen a Palermo, in compagnia di chi i quartieri li vive e li conosce a fondo.
Lontano dalle narrazioni demonizzatrici o pietiste dei media tradizionali le cinque storie di “Quartieri” parlano di solidarietà, di impegno, di orgoglio, di identità e di speranza in modo onesto evitando allo stesso modo mitizzazioni o smancerie.
Sono storie importanti, che spesso vengono ignorate per lasciare spazio ai racconti sensazionalistici, che fanno audience e attirano click ma come sono arrivati sfumano, lasciandosi dietro solo una patina di paura e pregiudizi.
“Quartieri” scardina il classico paradigma della periferia degradata e pericolosa riportando al centro la narrazione di chi in questi territori vive, le uniche persone in fondo che godono a piene titolo del diritto di raccontarle, nella loro verità e nella loro bellezza.
“Però mi piace. Sto quartiere è una poesia. Scritta male, recitata peggio. E in attesa di traduzione. Però torno sempre a rileggermela, per quanto è bella”.