Corpi anomali e costrutti culturali. Cosa ci insegna il Frankenstein sul rapporto tra corpo e identità
Di Elena Esposto
“Bisogna avere un cazzo per essere virili?
Jeanette Winterson
Mi guarda come se fossi l’essere più stupido della terra.
Perché vorresti essere un uomo, se non vuoi avere il cazzo?
Un uomo non è solo un cazzo su due gambe, no?
Più o meno, dice Ron.
C’è anche dell’altro, osserva Victor”.
Che cosa significa essere uomo? Che cosa significa essere donna? Possiamo scegliere cosa essere? Possiamo scegliere di non essere nessuna delle due cose? Che ruolo hanno il nostro corpo, i nostri tratti fisici, nella definizione della nostra identità?
Esattamente 207 anni fa, il 16 giugno 1816, una giovane donna di neanche 19 anni partoriva l’idea di uno dei romanzi più rivoluzionari della storia della letteratura. Il suo nome era Mary Shelley.
Pubblicato due anni dopo la nascita dell’idea nella mente di Shelley il “Frankenstein” ebbe da subito un enorme successo, come testimoniano le svariate copie pirata e le quasi immediate rappresentazioni teatrali ad esso ispirate. Come spesso capita per opere che hanno una rapida presa sulla cultura popolare, anche del Frankenstein nei decenni abbiamo perso qualcosa del suo messaggio originario, e chiunque si trovasse oggi a leggere il romanzo di Mary Shelly dopo essere stat* espost* alle numerose trasposizioni cinematografiche e alle rivisitazioni della cultura di massa, si troverebbe piuttosto stranit*.
Partiamo da un presupposto fondamentale (è uno spoiler ma se non ve lo dico ora quello che verrà dopo non regge): nel romanzo la creatura (sì esatto, non Frankenstein, quello è il dottore che la crea) non è malvagia. Al contrario, è intrinsecamente buona e presenta tratti di grande umanità e intelligenza. Insomma, non ha niente a che vedere con il simil-zombie che si muove a scatti e comunica a grugniti dei vari film.
Il suo unico “difetto”, che lo rende odioso agli occhi di chi lo incontra e del suo stesso creatore è quello di avere quello che oggi chiameremo un corpo non conforme.
Il povero dottor Frankenstein si era tanto impegnato ad andare a cercare pezzi di cadavere della giusta proporzione che gli consentissero di ricreare l’essere umano perfetto, una specie di uomo vitruviano zombie, ma appena la creatura apre i suoi “acquosi occhi gialli” lo scienziato si rende conto che quello che ha creato in realtà è, ai suoi occhi e a quelli del mondo, un mostro. La creatura ha un corpo spaventoso, dalle dimensioni smisurate, ed è orribilmente deforme. Per dirla meglio, il suo corpo non rispetta i canoni estetici della società.
Questo non dovrebbe stupirci, del resto stiamo parlando di un romanzo gotico, predecessore dell’horror. L’idea del Frankenstein nasce mentre Mary Shelley sta pensando a un racconto di paura, e la stessa notte fa un sogno così spaventoso che decide di usare quello spunto per la sua storia. Come lei stessa dirà: “Ciò che ha spaventato me spaventerà anche l* altr*”.
Mary Shelley però è una scrittrice raffinata e non si limita a scrivere qualcosa che ci possa far passare qualche notte in bianco. Ha vissuto il periodo del romanticismo, i suoi genitori erano filosofi, sa bene come indagare la natura umana e la sua descrizione della creatura non si limita all’aspetto fisico.
Ad un certo punto del romanzo, la cui narrazione è costruita come un complesso sistema di scatole cinesi, Mary Shelley cede la parola alla creatura stessa; è la sua voce quella che sentiamo, una voce erudita, dotata di grande sensibilità, intelligenza e cultura.
Questo crea una fortissima discrasia, una scucitura nella mente di chi legge. La stessa scucitura che, ci viene detto chiaramente, è nella testa della creatura e ha a che vedere con il rapporto tra il corpo e l’identità. Il corpo, inutile negarlo prende parte alla creazione della nostra identità, ma fino a che punto i nostri tratti fisici ci definiscono?
Dopo anni di teorie (e pratiche) abominevoli che volevano determinare la nostra intelligenza, la propensione al crimine, l’orientamento sessuale e l’identità di genere a fatti biologici e fisici come il colore della pelle, la forma del cranio o gli organi genitali, i contributi della riflessione antropologica e psicologica femminista, antirazzista e intersezionale ci permettono oggi di affermare che il corpo è solo una piccola parte di ciò che ci compone, è un’immagine parziale di noi e non coincide perfettamente con l’identità.
Il corpo è la nostra parte visibile, concreta, è veicolo di contatto e relazione con il mondo esterno e con l* altr*, è il nostro biglietto da visita e se non determina la nostra identità, determina spesso il modo in cui veniamo percepit* dalla società.
È proprio in questo istante che nasce la spaccatura, la discrasia. La creatura di Mary Shelley (come molt* di noi) vive un intenso conflitto interno tra ciò che sa di essere (umano, buono, capace di generosità e altruismo) e tra come viene percepito (brutto, deforme, spaventoso e dunque malvagio). Per dirla con linguaggio più specifico, c’è in lui una scollatura profonda tra la self identity (quello che sentiamo di essere) e la social identity (come la comunità a cui apparteniamo ci identifica).
Sebbene si basi su tratti fisico-biologici la social identity non è un concetto naturale, ma nasce dall’interpretazione del corpo rispetto a determinati criteri culturali e in quanto costrutto socio-culturale può e deve essere cambiata.
È la cultura a determinare i confini di adattamento e devianza. È la cultura a dirci che cosa è “normale” e “conforme” e cosa non lo è, e se non possiamo prescindere dalla nostra fisicità e dai nostri tratti corporali (sebbene negli ultimi anni la scienza abbia fatto grandi progressi da questo punto di vista, e oggi il corpo non è più un dato di fatto immodificabile) possiamo sicuramente agire sui condizionamenti sociali che ci portano a interpretare certi corpi in determinate maniere.
Ogni volta che consideriamo un corpo femminile come fragile ed emotivo, un corpo malato come infetto, un corpo disabile come inutile, un corpo anomalo come deviante e marginale, un corpo straniero come pericoloso stiamo cedendo a condizionamenti sociali che non hanno nulla a che vedere con la natura specifica di quei corpi e ancora meno con la vera identità di quegli individui.
Se ci fermiamo una attimo a pensare è davvero insensato legare la propria identità e quella altrui a qualcosa di così mutevole e instabile come il corpo. Il corpo cambia, evolve, si degrada, deperisce, invecchia, si ammala, muore e infine si decompone svanendo, ma la nostra identità non segue questi movimenti.
Uno spazio importante di riflessione sul rapporto tra corpo e identità è quello relativo all’identità di genere del quale mi sembra doveroso e importante parlare, soprattutto perché in questi giorni si celebra il mese dell’orgoglio LGBTQIA+. Nel discorso del femminismo intersezionale si è ormai scardinata l’idea che esista un legame a doppio filo tra l’assegnazione biologica del sesso e la performance di genere. Per dirla più semplicemente, non sono i nostri organi genitali a definire se siamo uomini o donne (o nessuna delle due cose).
Come esplicita egregiamente la filosofa statunitense Judith Butler autrice di “Gender trouble: feminism and the subversion of identity” (in Italiano “Questioni di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità”, edizioni Laterza) “il genere non è qualcosa che uno è, è qualcosa che uno fa, un atto o, più precisamente, una serie di atti. Un ‘fare’ più che un ‘essere’”.
E ancora: “il genere è la stilizzazione ripetuta del corpo, una serie di atti ripetuti in una cornice assai rigida di regolamentazione che si fissa nel tempo per produrre l’apparenza di una sostanza, di un certo essere naturale.”.
L’identità di genere ha dunque una natura di fatto imitativa, e il suo essere associata ad una determinata conformazione fisica (genitale) è un costrutto puramente sociale. Come dice Jeanette Winterson nella frase che apre questo articolo, presa dal romanzo “Frankissstein” essere un uomo (o una donna) è molto di più che avere un cazzo (o una vagina).
Ed è proprio il romanzo di Winterson, brillante riscrittura in chiave postmoderna del Frankenstein di Mary Shelley, che ci riporta alla domanda da cui siamo partit*. Che ruolo ha il nostro corpo nella definizione della nostra identità? A questo punto potremmo rispondere che questo ruolo è piuttosto marginale. Non sono i nostri attributi fisici a definirci, ma le nostre scelte e i nostri comportamenti.
La creatura di Frankenstein diventa malvagia alla fine del romanzo (ops, un altro spoiler), come risposta alle angherie subite da parte della società. In un certo senso arriva a far coincidere la sua self identity con la social identity, ma il prezzo è altissimo. Non che il prezzo di vivere abbracciando la propria identità in una società che crede ancora fortemente nel determinismo del corpo sia basso.
Lo abbiamo visto proprio in questi giorni con il tremendo suicidio di Cloe Bianco, professoressa transgender che in seguito al coming out era stata rimossa dal suo incarico di insegnante e sempre più isolata e marginalizzata fino alla scelta di togliersi la vita.
Ancora più in questo mese di giugno in cui si celebra il pride month è importante tornare a riflettere sui complessi legami tra corpo e identità, sui condizionamenti sociali che ci portano a considerare un corpo come “normale” e un altro come “deviante”. Come scrive Winterson il progresso scientifico e tecnologico ci ha permesso di superare molte delle nostre limitazioni biologiche e forse la liberazione dai vincoli del corpo è davvero il sogno dell’essere umano.
Per il momento però la nostra fisicità è ancora un tratto importante e imprescindibile, della quale non possiamo fare a meno. Quello di cui invece possiamo e dobbiamo fare a meno sono i costrutti culturali che di questa fisicità ci forniscono chiavi di interpretazione limitanti e limitate. Possiamo iniziare già oggi, e leggere l’opera di Mary Shelley e Jeanette Winterson è un ottimo punto di partenza.