Come dovrebbe essere raccontata la violenza di genere?

Di Elisa Belotti

Nel 2017, dopo aver a lungo riflettuto su come la violenza di genere e in particolare i femminicidi sono riportati dalla stampa e dopo aver assorbito il contenuto della Convenzione di Istanbul, è stato redatto in Italia il Manifesto di Venezia. Il documento viene firmato da una serie di enti che si occupano di giornalismo e di diritti, tra cui la Commissione pari opportunità della Federazione Nazionale Stampa Italiana, l’associazione GiULia (GIornaliste Unite LIbere Autonome), l’USIGRai e il Sindacato Giornalisti Veneto.

L’argomento viene espresso in modo programmatico nel titolo: “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione. Contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini”. Non basta, infatti, agire a livello penale e culturale per ridurre la violenza di genere. Bisogna intervenire anche sulle modalità con cui le notizie e le storie di discriminazione vengono narrate. Un racconto ricco di stereotipi contribuisce ad alimentare la cultura dello stupro, che rende possibile proprio la violenza di genere che è sempre più al centro dell’attenzione pubblica.

“La violenza di genere non è un problema delle donne e non solo alle donne spetta occuparsene, discuterne, trovare soluzioni” si legge nelle prime righe del documento. E l’impegno profuso per trovare queste soluzioni passa anche dalle scelte narrative adottate dai media.

Il Manifesto di Venezia, composto da un decalogo da seguire per fornire un’informazione “attenta, corretta e consapevole del fenomeno della violenza di genere e delle sue implicazioni culturali, sociali, giuridiche”, è entrato a pieno titolo all’interno della deontologia professionale, cioè di quell’insieme di norme che le giornaliste e i giornalisti hanno il compito di seguire per svolgere al meglio la propria professione.

Si cerca di tracciare i limiti del diritto di cronaca. Anche se chi fa informazione ha il dovere di raccontare i fatti, non va dimenticato il rispetto della loro verità sostanziale. “Non deve cadere in morbose descrizioni o indulgere in dettagli superflui, violando norme  deontologiche e trasformando l’informazione in sensazionalismo” si legge infatti nel Manifesto.

Perché sono importanti i dieci principi formulati a Venezia? Perché “la descrizione della realtà nel suo complesso, al di fuori di stereotipi e pregiudizi, è il primo passo per un profondo cambiamento culturale della società e per il raggiungimento di una reale parità”.

Consideriamo, infine, il decalogo del Manifesto. I primi punti riguardano la formazione e il comportamento professionale:

1. inserire nella formazione deontologica obbligatoria quella sul linguaggio appropriato anche nei casi di violenza sulle donne e i minori;
2. adottare un comportamento professionale consapevole per evitare stereotipi di genere e assicurare massima attenzione alla terminologia, ai contenuti e alle immagini divulgate

Si punta poi l’attenzione su una corretta declinazione dei ruoli professionali in relazione al genere della persona che li ricopre e su un’equa distribuzione dei generi negli eventi pubblici, così da evitare il fenomeno dei manel (i panel completamente al maschile).

3. adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali ricoperti dalle donne e riconoscerle nella loro dimensione professionale, sociale, culturale;
4. attuare la “par condicio di genere” nei talk show e nei programmi di informazione, ampliando quanto già raccomandato dall’Agcom

Un intero punto viene dedicato al termine femminicidio, che ancora fatica a essere utilizzato quando necessario. Parallelamente si ricorda però che non c’è una gerarchia tra le violenze. La piramide dei fenomeni che rientrano nella cultura dello stupro non li suddivide per gravità.

5. utilizzare il termine specifico “femminicidio” per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne e superare la vecchia cultura della “sottovalutazione della violenza”: fisica, psicologica, economica, giuridica, culturale;
6. sottrarsi a ogni tipo di strumentalizzazione per evitare che ci siano “violenze di serie A e di serie B” in relazione a chi subisce e a chi esercita la violenza

Il rispetto e la tutela di chi ha subito violenza deve essere al centro dell’attenzione. Ecco la ragione alla base di una correttezza linguistica che copre tutte le soggettività, soprattutto quelle più marginalizzate.

7. illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli nei confronti di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere

Quando si è davanti a chi si sottrae dalla violenza è bene metterlo in risalto, ricordandosi però che ciascuna donna ha il diritto di reagire nel modo che più reputa opportuno. In ogni caso non bisogna mai sfruttare la marginalizzazione a fini commerciali, per aumentare i clic e le visualizzazioni del contenuto informativo.

8. mettere in risalto le storie positive di donne che hanno avuto il coraggio di sottrarsi alla violenza e dare la parola anche a chi opera a loro sostegno;
9. evitare ogni forma di sfruttamento a fini “commerciali” (più copie, più clic, maggiori ascolti) della violenza sulle le donne

Infine, il documento si chiude con un appello a un uso corretto del linguaggio. Sono tante le abitudini linguistiche che alimentano gli stereotipi di genere e nutrono la cultura dello stupro. Imparare a riconoscerle rompe questo processo e contribuisce invece a una narrazione onesta e pienamene rispettosa.

10. nel più generale obbligo di un uso corretto e consapevole del linguaggio, evitare:
a) espressioni che anche involontariamente risultino irrispettose, denigratorie, lesive o svalutative dell’identità e della dignità femminili;
b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento;
c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”;
d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via.
e) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza, nel rispetto della sua persona.

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