Identità di confine e affermazioni liminali. Come il bilinguismo definisce le persone e perché, a volte, può andarci stretto

Di Mari Catricalà

Il mio legame con le parole è sempre stato molto forte. Essendo bilingue, fin da piccola mi sono ritrovata a riflettere sulle parole che usavo quando gli altri mi facevano notare delle incongruenze, degli errori, dei mescolamenti che commettevo mio malgrado e senza accorgermene. È quasi sempre stata una consapevolezza linguistica basata sul difetto. Passando dal giapponese all’italiano e viceversa, che sono due sistemi linguistici estremamente differenti, mi perdevo spesso in una terra di mezzo difficile anche solo da immaginare ma che il cervello mi offriva come oasi per quando ancora non distinguevo perfettamente una lingua dall’altra, e la fatica di stare dietro a entrambe era enorme. Estenuante. Così il cervello, mescolando, mi salvava da un eccesso di sforzo, ma allo stesso tempo mi esponeva alle facce perplesse e divertite di chi mi ascoltava dire cose senza senso.

Questa consapevolezza di difetto, imbarazzata (io imbarazzata, ma anche la consapevolezza), mi portava a riflettere anzitutto sul fatto che l’italiano non era uguale al giapponese – sembra scontato ma per chi ha assorbito queste o altre lingue contemporaneamente può non esserlo, all’inizio, perché una vale l’altra ed entrambe sono ugualmente istintive e necessarie – e, di conseguenza, che dovevo imparare a usare le due lingue in contesti diversi. Questo voleva dire prendere le distanze da entrambe, e la sensazione era proprio quella di sentirmi altro rispetto alle mie due lingue madri. Non ero la mia lingua A e non ero nemmeno la mia lingua B. Potevo scegliere, e dovevo farlo, se volevo essere compresa. Crescendo ho ovviamente imparato a distinguerle con chiarezza e a parlarle senza troppa confusione, ma un certo grado di mescolanza è sempre rimasto. E questo ha influito moltissimo sulla percezione della mia identità. 

Forse non è tipico pensarsi o identificarsi in termini di lingue, e forse non è esattamente questa la sfumatura a cui pensava Kimberlé Crenshaw quando introduceva per la prima volta il concetto di intersezionalità. Ma mi serve prenderne un pezzettino per descrivere la mia esperienza di confusione identitaria. Non siamo fatti a compartimenti stagni e tutte le cose che siamo (nazionalità, genere, sesso, lingue, orientamento sessuale e altro) non sono sovrapposizioni ma, appunto, intersezioni. Sono parti che si mescolano dentro di noi e che diventa impossibile distinguere. Quando però sono gli altri a definirci, le categorie emergono con confini molto ben delineati ed è lì che ci sentiamo ingabbiati, un po’ a disagio, incapaci di rifletterci in nessuna di quelle definizioni perché sono, spesso, solo parzialmente corrispondenti alla percezione che abbiamo di noi stessi mentre tutto il resto, con le sue sfumature, sfugge. 

C’è una parola, in giapponese, che è un prestito dall’inglese, ed è il termine “half”. Si usa per indicare le persone che hanno un genitore di una nazionalità e l’altro di un’altra. Sono sempre stata etichettata come “half” e ho finito con il definirmi così a mia volta per praticità comunicativa, ma non è un termine in cui mi identifico completamente. Non sono, letteralmente, “metà giapponese e metà italiana”, perché non è di metà che sono fatta. Sono nata e cresciuta in Italia, ma è vero che non mi sento italiana al 100%; ed è vero anche che, quando mi candido a offerte di lavoro che mi chiedono con quale “razza” o “gruppo etnico” mi identifichi, rispondo sempre “mixed race”, perché, tra quelle elencate, è la definizione in cui meglio mi riconosco. Ma “mixed” non è “half”, e mi dà quella libertà di sentirmi legittimamente un miscuglio inesatto senza percentuali.

Continuo a vivere nella mia confusione identitaria, che è soprattutto la reazione al tentativo degli altri di incasellarmi in categorie nette, facilmente individuabili quindi rassicuranti. E lo capisco, perché è così che siamo abituati a conoscere e a interpretare il mondo. Ma esistono anche certe situazioni e persone che non si sentono comode nell’essere circoscritte entro confini certi e che preferiscono e richiedono, invece, di rimanere in zone liminali. 

In questi giorni sto leggendo un romanzo bellissimo di un’autrice messicana, Valeria Luiselli, intitolato Lost Children Archive. Ogni sezione del libro è introdotta da un macro-titolo e da alcune citazioni. La sezione che sto leggendo ora si intitola “Missing” e la prima citazione è dalla sociologa statunitense Gloria Anzaldúa, che provo a tradurre più sotto in italiano:

A borderland is a vague and undetermined place created by the emotional residue of an unnatural boundary. It is in a constant state of transition. The prohibited and forbidden are its inhabitants”.

(“Una zona di confine è un luogo vago e indeterminato creato dal residuo emotivo di un limite non naturale. Si trova in un continuo stato di transizione. Proibizione e divieto sono i suoi abitanti”.)

La coscienza linguistica di quando ero piccola mi ha per prima posto l’interrogativo “chi sono io se ho due lingue madri e le confondo, e il resto del mondo non mi capisce?”. Era davvero una coscienza nata dall’imbarazzo, dal margine di errore che sempre si concretizzava e che mi faceva sentire in difetto. Cadevo in questa zona di confine tra una lingua e l’altra dove mi trovavo a osservare entrambe in un frullatore emotivo di sorpresa, disagio e un po’ di senso di colpa per non saper dare un’immagine chiara di me stessa a chi mi stava di fronte. Per questo la citazione di Anzaldúa mi ha scossa. Il limite non naturale che a volte ci viene imposto (“sei questo o quello”) produce terremoti emotivi che ci rendono coscienti di cose che nemmeno immaginavamo di essere o non essere. E se la zona di confine è per definizione continuamente in movimento (cioè cambiamento), ovviamente il limite, qualsiasi limite le si imponga, risulta innaturale, una forzatura. Diventavo altro rispetto alle mie lingue madri perché “altro” era quello che gli altri percepivano di me. E da quella confusione linguistica procedeva la mia confusione identitaria. 

Fino a qualche anno fa, questa confusione era per me motivo di lotta interna continua. Ora la vivo con più serenità e ne provo un certo affetto. Nella vaghezza linguistica e identitaria vedo moltissima libertà e tanto confine labile, margine di cambiamento. Mantenere questi spazi liminali può far emergere e respirare identità che altrimenti verrebbero ignorate o silenziate e che magari non hanno (ancora) un riconoscimento linguistico, quindi concettuale e sociale. Non so se sia una specie di petizione del diritto a rimanere misti, indefiniti, confusi, almeno per un po’ o anche per sempre. Qualunque cosa sia, mi piacerebbe che venisse contemplata come una possibilità, tra le tante, di affermazione. Confine, transizione permanente, possono essere uno stato d’essere in cui riconoscere e riconoscersi.