Bella la maternità ma non ci vivrei

Di Elena Esposto

“Io capisco le donne che uccidono i propri figli. Perché dopo un po’ tra la privazione del sonno, tra che la tua vita sociale è morta, tra che neanche quando non sono fisicamente con te, neanche allora riesci a rilassarti e a non pensare di doverti prendere cura di loro… insomma, se non hai un minimo di rete di supporto o di equilibrio interiore non fatico a credere che si possa farlo.”

Ero a un gruppo di lettura tra donne quando ho sentito questa frase (chi l’ha pronunciata ha un figlio di 40 anni vivo e vegeto, quindi no worries) e mi sono resa conto che era la prima volta che lo sentivo dire a voce alta da una madre in carne e ossa.

“Capisco le donne che uccidono i propri figli”. Una frase che lì per lì, nel contesto, poteva sembrare una battuta di humor nero, se non fosse che nessuna delle altre donne, né madri né non madri ha riso. Ma neanche si è indignata.

Perché è vero, mi sono resa conto. Ciascuna di noi l’ha pensato almeno una volta, o lo penserà, anche se non tutte hanno il coraggio di dirlo ad alta voce.
Alla fine aveva ragione Laszlo Kreizler, protagonista della serie l’Alienista, nel dire che qualsiasi madre, messa nelle giuste condizioni (o sarebbe meglio dire in quelle sbagliate), può trasformarsi in un’assassina.

Medea è fra noi, spesso più vicina di quello che immaginiamo.

Certo, rendersene conto e accettarlo non è facile. Sono decenni che il patriarcato ci propina il sommo imbroglio dell’istinto materno, abile invenzione creata ad arte per costringere e ingabbiare le madri nel ruolo a loro imposto, e per far sentire “snaturate” tutte quelle che non si conformano.

È paradossale che nel momento in cui le donne occidentali sono riuscite a liberarsi del patriarcato, classicamente inteso, stiano sperimentando una nuova forma di dominio maschile, ossia l’ideologia maternalista […], una regressione della condizione femminile (dopo l’autorità del maschio padre, l’impero del bambino!). Potremmo definirla una maternità intrappolata nel politicamente corretto in una società che esalta la bellezza di tale esperienza attraverso immagini, messaggi pubblicitari e valori, ma che non parla mai del rovescio della medaglia.

Scrive così Sara Fariello nel suo Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato un saggio illuminante su quante e quali siano le pressioni che le donne sentono in quanto madri (o se decidono invece di non avere figli) e quali possano essere le loro conseguenze.

Perché appunto, dicevamo poco prima, l’istinto materno è un’abile invenzione del patriarcato per far sentire sbagliate quelle donne che preferirebbero fare qualsiasi cosa piuttosto che occuparsi dei figli.
Eppure ormai la comunità scientifica lo ha chiarito più volte: l’istinto materno non esiste. Anzi, ciò che è davvero istintivo è piuttosto il rifiuto che molte donne testimoniano di sperimentare subito dopo il parto.
Quel sentimento di amore e cura che le madri possono provare per la loro prole è piuttosto un “sentimento materno”, determinato culturalmente e non biologicamente, che si sviluppa solo dopo, grazie alla relazione con la bambina o il bambino, tanto che è perfettamente riscontrabile anche, ad esempio, nelle madri adottive.

Oltre che dell’invenzione dell’istinto materno il patriarcato è anche colpevole di omissione. Tra le tante cose che ci hanno propinato sulla maternità si sono dimenticati di dirci che, come tutte le relazioni, anche quella madre/infante è dominata dal conflitto.

Insomma, non solo non è vero che proveremo immediatamente un amore sconfinato per l’esserino uscito dal nostro utero, non solo ci vorrà del tempo per costruire una relazione di amore, ma questo amore non sarà costante nel tempo.
Anzi, proprio perché la sopravvivenza della bambina o del bambino dipende dal sacrificio della madre (in termini di tempo, di energie, di corpo…) il rapporto non sarà senza difficoltà.

La maternità può facilmente trasformarsi in una trappola per topi, soprattutto se non è scelta consapevolmente. E questo non significa solo ritrovarsi incinte senza volerlo davvero, ma anche compiere una scelta sulla base di falsi miti come quelli imposti dal patriarcato.

Come scrive Orna Donath nel suo magistrale Pentirsi di essere madri:

La maternità può essere piena di tensioni e ambivalenze che possono creare impotenza, frustrazione, senso di colpa, vergogna, rabbia, ostilità e delusione. Sappiamo già che la maternità può ridurre lo spazio di manovra delle donne e il loro grado di indipendenza. E abbiamo appena iniziato a comprendere che le madri sono esseri umani che possono consciamente o inconsciamente infliggere dolore, abusare e talvolta uccidere.

E rieccoci tornate al punto di partenza. Con queste considerazioni in mente, non è difficile intuire perché una donna che pure ha dedicato la sua vita al figlio possa dire di capire le madri che uccidono.

Dovremmo farlo tutte e tutti. Cercare di capire, intendo, e smetterla di rifugiarci dietro alla facile idea che una madre che decide di uccidere la propria figlia o il proprio figlio sia una madre-mostro, una folle in preda a un raptus.
Perché la realtà è ben diversa da come ce la raccontano i media.

Come spiega Fariello “il figlicidio è raramente un fulmine a ciel sereno poiché viene spesso preceduto da situazioni ricorrenti che dovrebbero preoccupare o, almeno, richiamare l’attenzione di medici, assistenti sociali e soprattutto quella dei componenti del nucleo familiare che, al contrario, rimangono indifferenti a questi segnali.”
E a commetterlo, per la maggior parte delle volte, sono donne “normali” che magari avrebbero avuto solo bisogno di un po’ più di aiuto e comprensione e di non venire rispedite a casa senza tanti complimenti dopo pochi giorni dal parto. Questo in un mondo dove manca qualsiasi concreto sostegno istituzionale alla maternità che non siano inutili blateramenti sul crollo delle nascite, senza supporto medico specializzato in caso di maternity blues o depressione post partum e spesso senza neanche la vicinanza e l’appoggio della rete degli affetti.

Non sarà difficile comprendere come questo sposti l’asse della responsabilità del figlicidio da un piano individuale a un piano sociale.
Perfino l’Organizzazione Mondiale della Sanità spiega questo fenomeno in chiave sociologica e non medica. Come riporta Fariello:

le donne uccidono i propri figli perché sono vulnerabili e sole, vivono lo stress di madri e donne lavoratrici, la svalutazione della loro condizione sociale e, dall’altro lato, l’ansia legata all’esigenza di soddisfare modelli di perfezione in una società in cui i pregiudizi e il meccanismo di stigmatizzazione tornano a confinarle nella sfera della maternità e/o della seduzione.

Dovremmo quindi iniziare a metterci nell’ottica di condividere con le madri assassine la responsabilità dei figlicidi. Come società e come individui.
Ogni volta che regaliamo una bambola a una bambina facendole credere che quello sia l’unico modo in cui una donna può realizzarsi, ogni volta che diciamo a una donna che ha deciso liberamente di non avere figli che si pentirà, ogni volta che consideriamo chi non vuole essere madre “meno donna”, ogni volta che facciamo sentire una madre a disagio o imperfetta per il modo in cui agisce (che comunque non sono affari nostri, no?), ogni volta che minimizziamo sintomi di depressione con un “vedrai che poi passa”, ogni volta che lasciamo le donne da sole a occuparsi di tutto, ogni volta che diamo per scontato che le madri debbano essere madri h24 dimenticandoci che sono esseri umani siamo responsabili anche noi.