Tutta colpa delle donne?

Di Elena Esposto

Nel marzo scorso, in seguito all’attacco terroristico contro una moschea in Nuova Zelanda, Alessandro Sallusti disse che se l’attentatore avesse avuto una moglie o una madre a prendersi cura di lui non avrebbe fatto il suprematista.

Non è la prima volta che l’assenza di una donna (e delle sue attenzioni) viene utilizzata per giustificare atti di estrema violenza, come ad esempio nel caso di Alek Minassian che ha ammazzato dieci persone a Toronto, o di Elliot Rodger, che prima di compiere l’atto criminale che ha ucciso sei persone e ne ha ferite tredici, ha lasciato ai posteri 200 raccapriccianti pagine di memorie dove spiega che il suo gesto era dovuto solo al fatto che nessuna donna lo aveva mai amato (e scopato, dal momento che per lui pare non ci fosse differenza).

Lungi dall’essere vuoto vittimismo, il discorso che vede le donne come “colpevoli” della violenza maschile trova fondamento anche in correnti scientifiche o pseudo tali.

Nell’articolo Sexual geopolitics: the ‘blue balls’ theory of terrorism¸ Gilbert Caluya, dettaglia queste teorie a partire dal lavoro di Valerie M. Hudson e Andrea den Boer, dove gli autori esprimevano preoccupazione per la sicurezza internazionale dovuto al fenomeno dei “maschi in surplus”.

Lo schema è più o meno il seguente: ci sono zone del mondo in cui per le più svariate ragioni (aborti selettivi, infanticidi di bambine, poligamia maschile…) esiste uno squilibrio tra il numero di maschi e quello di femmine. Questi uomini che “avanzano” (cioè che non sono in grado di trovare una donna per sposarsi o accoppiarsi) provengono generalmente dalle classi più basse, sono disoccupati o sottoccupati, poveri e costretti ad emigrare. Nelle comunità in cui emigrano tendono a stare con altri maschi giovani nella loro stessa condizione, integrandosi poco con il tessuto sociale e rendendo ancora più complicato trovare una donna. La frustrazione sessuale e gli alti livelli di testosterone ad essa collegati rischiano di portare questi uomini a comportamenti violenti.

I due autori portano come esempio alcuni studi (messi poi in discussione da altri più recenti) che collegherebbero gli alti livelli di testosterone a comportamenti indesiderati come abuso di sostanze, violenza, ribellione, mancato rispetto delle regole, criminalità e chi più ne ha più ne metta.

Rivendicando il potere “pacificatore” del matrimonio, e nascondendosi dietro a vuoti slogan sui diritti delle donne, Hudson e den Boer suggeriscono di vietare pratiche come l’aborto selettivo, l’infanticidio o la poligamia e di aumentare la sessualizzazione delle donne del terzo mondo.

I prodotti di questa campagna massiva di emancipazione femminile verrebbero poi buttate nelle braccia degli uomini che “avanzano” per evitare che diventino terroristi.

Sembrerebbe un piano perfetto, peccato che queste teorie si basano esclusivamente su presunti fattori genetici.

E qui arriviamo alle fantomatiche “palle azzurre” citate nel titolo dell’articolo di Caluya.

Il fenomeno delle “palle azzurre” (del quale esiste una singola evidenza medica, e neppure troppo robusta) interesserebbe quegli uomini che, a fronte di continua stimolazione sessuale non abbiano la possibilità di eiaculare. La mancata eiaculazione porterebbe a un ristagno di liquidi (sangue, sperma? Nessuno lo sa con certezza) nei testicoli che, congestionandosi, assumerebbero una sfumatura azzurrognola.

Nonostante le evidenze scientifiche praticamente nulle, secondo Caluya le “palle azzurre” stanno alla base di moltissime concezioni etero normative delle relazioni tra i due sessi e in particolare di quelli che lui chiama i “modelli idraulici della sessualità”.

Gli uomini sarebbero dunque alla piena mercé dei propri istinti sessuali dei quali la società demanda il controllo all’istituzione matrimoniale nella quale, peraltro, le donne sono spesso in una condizione di sottomissione.

Alle donne viene riservato dunque il ruolo di pacificatrici della società, ruolo che però non passa attraverso canali comunitari e culturali, dando loro il potere di modificare le strutture sociali, ma solo ed esclusivamente per il canale sessuale. Da attori politici e sociali le donne diventano così mere valvole di sfogo per gli istinti maschili.

Nelle concezioni che vedono la frustrazione sessuale alla base degli atti di violenza e di terrorismo ci sono molte falle, come Caluya dimostra ampiamente nel suo lavoro.

Ridurre tutto al sesso potrebbe sembrare una soluzione semplice. Di sicuro è semplicistica.

Essa schiaccia tutti gli individui della società, maschi e femmine, nella morsa di un determinismo senza via di uscita.

In una tale visione del mondo, dove tutto dipende dai meccanismi della natura è impossibile lavorare sulla cultura. Agli uomini non resta che sottomettersi ai propri istinti e alle proprie frustrazioni, senza poter indagare sulle loro cause profonde.

Bisognerebbe invece riconoscere i meccanismi malati che determinano il valore e la dignità del maschio sulla base di quante donne riesce ad “accaparrarsi”.

E in quanto alle donne viene tolta loro ogni identità di agente. Invece di riconoscere loro un vero ruolo di pacificatrici sociali grazie alle loro capacità di inclusione e accoglienza vengono relegate a semplici oggetti sessuali. Come se non bastasse oggetti sessuali “gestiti” all’interno di un istituzione come quella del matrimonio che in molti contesti e culture è ancora un potentissimo strumento di sottomissione.

Non possiamo fermarci al sesso e sperare che questo spieghi tutte le tensioni sociali, politiche e perfino internazionali.

La violenza e il terrorismo sono problemi reali, ed è innegabile che una grossa fetta di questi atti venga perpetrata da uomini, ma non possiamo sperare di trovare la soluzione in teorie idrauliche della frustrazione sessuale. Se la frustrazione maschile esiste allora va cercata più in profondità, alla radice di una cultura patriarcale che, guarda caso, sta anche alla base dell’oppressione femminile.