“Mi fa male l’utero quando vi guardo”. La Polonia e il diritto d’aborto

di Elena Esposto

Ormai è un dato di fatto: le donne polacche sono arrabbiate.
Da giorni ormai (più precisamente dal 22 ottobre, data della sentenza della Corte Costituzionale che limita ulteriormente la possibilità di abortire, anche in caso di malformazione del feto), gruppi di manifestanti si sono incessantemente riversati nelle piazze e nelle strade delle maggiori città del Paese per rivendicare il diritto di poter decidere del proprio corpo.

Venerdì scorso, a Varsavia, erano in 100.000 a scrivere la storia: uomini e donne insieme, fermi sui passaggi pedonali, hanno mandato in tilt il traffico della capitale sventolando manifesti, striscioni e ombrelli neri (simbolo della lotta a favore dell’aborto); attori e cantanti hanno dato vita a spettacoli di protesta; è stato dichiarato sciopero di massa.
Le donne hanno fatto irruzione nelle chiese durante le funzioni religiose con cartelloni dagli slogan: “Preghiamo per il diritto all’aborto” e “Tua colpa, tua colpa, tua grandissima colpa”, volutamente provocanti, contro la Conferenza Episcopale Polacca che aveva sostenuto e lodato la sentenza della Corte.

La legge polacca sull’aborto del 1993 è una delle più severe d’Europa, e consente l’interruzione volontaria di gravidanza (IGV) solo in caso di stupro, incesto, se la vita della madre è a rischio e in caso di malformazioni del feto. Questo fino a dieci giorni fa, almeno.

Come l’Italia, anche la Polonia deve fare i conti con forti movimenti “pro vita” e un radicato bigottismo, dato dal grande potere esercitato dalla Chiesa Cattolica.
In un contesto come questo, dove domina l’ideologia egemonica della “famiglia tradizionale”, non è facile per le donne (né per le minoranze) trovare uno spazio all’interno della società.

L’influenza religiosa sulle scelte politiche fa sì che i temi riguardanti i diritti delle donne e della comunità LGBTQ+ vengano offuscati da istanze a favore dell’eteronormatività e dei tradizionali ruoli di genere.

Infatti, oltre ad avere la peggior legge sull’aborto, la Polonia è anche l’ultimo paese in Europa per la difesa dei diritti della comunità LGBTQ+, secondo quanto riportato dalla classifica dell’ILGA (l’International Lesbian and Gay Association).

Quella di questi giorni quindi, come ha sottolineato la leader femminista, Klementyna Suchanow, “non è solo una protesta delle donne, ma una rivoluzione della società”. È la protesta dei giovani e dei segmenti liberali della popolazione, ormai stufi del bigottismo e del tradizionalismo che tanto piacciono alle destre europee.
Nonostante la minaccia della repressione, anche gruppi sociali tradizionalmente conservatori, cattolici, filogovernativi si sono schierati con il movimento e alcuni di loro hanno perfino sfilato nei cortei, un fenomeno che vorremmo e dovremmo vedere più spesso.

Schierarsi a favore dei diritti è un dovere sempre, anche quando questi diritti non ci riguardano o non ne beneficiamo in prima persona.
Come scrisse Evelyn Beatrice Hall “Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere.”

Essere a favore del diritto all’aborto (non all’aborto di per sé, le due cose non vanno necessariamente insieme) e volere che questo sia garantito significa essere a favore della vita delle donne.
Secondo una ricerca dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, solo nel 2008, 47.000 donne sono morte a causa di complicazioni sopravvenute in seguito ad aborti definiti a rischio.
Sempre secondo stime dell’OMS ogni anno nel mondo vengono praticati 25 milioni di aborti a rischio (su 56 milioni totali), il 97% dei quali in Africa, Asia e America Latina.

Con l’espressione “aborti a rischio” si indicano tutte quelle interruzioni di gravidanza praticate da personale non sanitario o in ambienti che non rispecchiano gli standard medici e di igiene minimi.

Secondo l’Oms il tasso di mortalità materna causato da queste operazioni oscilla tra il 4,7 e il 13,2%. Quando parliamo di “madre”, poi, non intendiamo solo la madre del feto abortito. Non dobbiamo dimenticare che spesso le donne che ricorrono ad IGV sono già madri di altri figli e magari, come accade in molti Paesi, sono le uniche responsabili della famiglia.
Un’altra conseguenza degli aborti a rischio è che circa 7 milioni di donne ogni anno vengono ospedalizzate, a seguito di complicazioni causate dagli strumenti utilizzati: dal raschiamento parziale all’emorragia, infezioni, perforazioni uterine, altri danni ai genitali e agli organi interni.

Sempre secondo il report dell’Oms il motivo principale per il quale si rende necessario ricorrere ad aborti in condizioni non sicure sono le leggi restrittive che penalizzano L’IGV.
È emblematico che 3 aborti su 4 praticati in Africa e in America Latina avvengano in condizioni rischiose, dal momento che la legislazione della maggior parte dei Paesi in questi due continenti penalizzano l’aborto.
I sostenitori della propaganda anti aborto dovrebbero avere ben chiari questi fatti prima di lanciarsi in battaglie pro-vita che si rivelano essere invece pro-morte. Senza considerare il fatto che cancellare le leggi che tutelano il diritto di scelta delle donne e proibire l’aborto in tutte le circostanze non estirperebbe il fenomeno.

Proibire non significa eliminare, se la storia e l’economia ci hanno insegnato qualcosa. Come il proibizionismo non impediva la vendita di alcolici e l’illegalità delle droghe non impedisce ai gruppi criminali di continuare a fatturare miliardi sul mercato nero, allo stesso modo scagliarsi contro le norme che disciplinano l’interruzione volontaria di gravidanza non impedirà alle donne di abortire comunque, anche a rischio della loro vita.

La penalizzazione dell’aborto non solo costringe le donne a interrompere la gravidanza nell’illegalità, in condizioni igienico-sanitarie carenti, quando non del tutto assenti, che possono risultare in gravi danni per la salute o addirittura nel decesso, ma le mette anche alla mercé dei criminali che offrono questo genere di “servizio”.
In definitiva, se la cifra di 56 milioni di aborti all’anno fa rabbrividire i pro-vita che considerano ogni aborto un omicidio, e se è veramente di vita che vogliamo parlare, allora parliamo anche di quelle 40.000 donne che muoiono ogni anno per aver abortito in condizioni disumane.
Se quello che ci interessa è la vita vera, e non la mera ideologia, allora la battaglia contro le leggi che disciplinano il diritto all’aborto è il peggior modo per dimostrarlo.