Le erbe e le Donne-medicina

Di Alice Rita Giugni

Esiste un antico e profondo legame tra le piante e gli esseri umani che, sin dalle epoche più remote, si sono nutriti e curati con le erbe, guidati inizialmente dall’innata propensione alla sperimentazione e dall’osservazione del mondo animale.
L’utilizzo delle erbe, come rimedio per lenire i mali dell’uomo, si perde nella notte dei tempi: studi compiuti in Iraq, mediante l’analisi del polline di otto specie di piante tuttora utilizzate, indicano che già l’uomo di Neanderthal ne conosceva il loro principio terapeutico. 

Nel Paleolitico, raccogliere erbe e frutti eduli, prendersi cura dei bambini e del benessere della comunità erano mansioni “statiche”, assegnate principalmente alle donne, mentre l’uomo si occupava generalmente di cacciare o combattere, allontanandosi dal villaggio anche per lunghi periodi.
L’archeologa Erika Maderna, nel suo libro “Medichesse. La vocazione femminile alla cura”, afferma che sia stata proprio la stanzialità ad aver dato alle donne la possibilità e il tempo per osservare e sperimentare i molteplici utilizzi delle erbe, contribuendo, così, a legarle indissolubilmente all’erboristeria. 

In Europa, il connubio donne-erbe fu così saldo da sfidare il passare delle epoche e l’egemonia patriarcale; neppure i devastanti roghi dell’inquisizione riuscirono a distruggere questa connessione.

Sin dal Paleolitico, i saperi che le donne acquisirono empiricamente per potersi prendere cura della comunità, come l’arte della raccolta delle erbe, le tecniche di trasformazione, conservazione e somministrazione, vennero tramandate di madre in figlia, grazie alla riproduzione di gesti e alla trasmissione di conoscenze ed evolvendo di pari passo alle pratiche farmaceutiche e gastronomiche che venivano via via affermandosi.

Sempre dagli studi di Erika Maderna, possiamo scoprire che il primo nome di donna medico giunto a noi risulta essere quello di Merit Ptah, vissuta in Egitto intorno al 2700 a.C. di cui, purtroppo, non disponiamo di altre informazioni. 
In questo periodo non abbiamo traccia dei trattati scritti da altre donne-medicina, ma possiamo constatare, grazie alle iscrizioni funerarie in cui si trovano nomi e professioni, che molte donne praticavano l’erboristeria e le arti mediche. La stessa regina Cleopatra utilizzava le erbe con sapienza e maestria a scopo terapeutico e cosmetico.
Nell’antichità risuona poi il nome di Maria la Giudea, conosciuta anche come Maria Prophetissima, Maria d’Alessandria o Miriam la Profetessa, vissuta tra il primo ed il terzo secolo d.C. ad Alessandria d’Egitto, filosofa ed alchimista, a cui è dovuta l’invenzione del “Bagnomaria”.

Nel medioevo, la Scuola Medica Salernitana attirò molte studentesse poiché, in questo polo culturale, non era precluso l’esercizio della professione medica alle donne. 
Fecero parte delle Mulieres Salernitanae figure di spicco nel mondo della medicina medievale come Rebecca Guarna, autrice di opere sulle febbri, sulle orine e sull’embrione; Abella Salernitana che pubblicò un trattato sulla bile nera ed uno sulla natura del seme umano; Mercuriade, donna medico e chirurga, che studiò gli unguenti e la guarigione delle ferite; Costanza Calenda, figlia del fisico e chirurgo Salvatore Calenda, che assistette il padre nel suo lavoro di medico alla corte di Napoli; Sichelgaita di Salerno, principessa longobarda che si dedicò allo studio della medicina e dell’erboristeria e Trotula de Ruggiero, considerata la madre della medicina di genere. 
A quest’ultima è attribuito il trattato “De passionibus mulierum ante in et post partum” che segna la nascita dell’ostetricia e della ginecologia come scienze mediche. 
Trotula introdusse l’utilizzo delle suture post partum al fine di evitare emorragie ed infezioni e si occupò, inoltre, di igiene e fitocosmesi.
Sempre in epoca medioevale un’altra emblematica figura fu la suora benedettina Ildegarda di Bingen (1098-1179). Mistica, teologa, filosofa, che studiò musica, medicina e fitoterapia, Ildegarda elaborò cure e rimedi per le affezioni della pelle, per problematiche femminili, per il sistema nervoso e il sostegno della terapia interna.

In tempi più recenti i nomi di donne legati all’erboristeria, alla fitoterapia e allo studio delle piante sono diventati sempre più numerosi. 

Maria Sybilla Merian (1647-1717), naturalista e pittrice tedesca, realizzò tre volumi di illustrazioni botaniche, grazie ad una coraggiosa spedizione in Suriname dove osservò specie vegetali sino ad allora sconosciute in Europa. Anna Atkins (1799-1871), botanica e fotografa inglese che applicò la cianotipia alle alghe. Persino la poetessa Emily Dickinson si interessò al mondo delle piante, studiò botanica all’Accademia Amherst e raccolse più di 400 tipi di piante nel suo erbario. 
Janaki Ammal (1897-1984), invece, fu la prima donna a conseguire un dottorato di ricerca in botanica negli Stati Uniti e si occupò di fitogeografia, di citogenetica e di etnobotanica. 

Nell’immaginario collettivo tinture, pozioni, unguenti, decotti di radici, portano alla mente, a causa di una predominanza della visione patriarcale, la figura di una donna, probabilmente anziana che, in mezzo a barattoli di erbe sapientemente conservate, cerca in un vecchio libro le ricette tramandate da altre donne prima di lei; richiamando l’immagine di colei che per secoli è stata definita “Strega”, termine spesso utilizzato come un insulto ma che tale non è.

“Strega”, dal greco antico stryx, indica un uccello notturno come la civetta, animale legato alla dea  Atena, la divinità greca della saggezza e colei che donò ad Asclepio, dio della medicina, due fiale con il sangue di Medusa, in grado di curare tutte le malattie.

Concentrandosi dunque sull’etimologia della parola, il termine “strega” ci rimanda alla conoscenza, alla saggezza, alla medicina, a quell’animale che regna di notte, veglia e protegge “chi dorme”, vede nel buio e non teme le tenebre.
Le donne-medicina possono così identificarsi nell’archetipo della saggia civetta, di Pallade che donò al dio della medicina la cura per tutte le malattie, sono gli occhi che riescono a vedere nel buio della malattia e del dolore, vegliano sull’uomo addormentato ed inconsapevole.