Le vite delle lavoratrici sessuali contano.

Di Livia Motterle

Ogni 17 di dicembre si celebra la giornata internazionale per eliminare la violenza contro le lavoratrici sessuali.
Il motivo per il quale si scelse questa data è in ricordo delle quarantanove prostitute di Seattle, uccise tra il 1982 al 2003 da Gary Leon Ridgway, meglio conosciuto come “l’assassino in serie di Green River”.
Gary confessò davanti al giudice che “voleva uccidere il maggior numero di prostitute per pulire le strade di Seattle”.
Nel 2003 si è fissato il 17 di dicembre come una giornata in ricordo di queste vittime, ma con il tempo si + istituita una giornata internazionale per segnalare e combattere qualsiasi forma di violenza verso le lavoratrici del sesso.

Se ci chiediamo da dove viene questa violenza probabilmente la prima risposta che ci diamo è “dai magnacci”.
Purtroppo, moltissime donne e bambine sono costrette a prostituirsi e vivono in condizioni disumane, obbligate con la forza dai loro “protettori” (che tutto fanno meno proteggerle) a prostituirsi.

Ma nel campo della prostituzione non esiste solo la tratta. Anche le donne che entrano nel campo dell’industria del sesso per volontà propria (sì, esistono anche persone che fanno del lavoro sessuale una professione che non solo garantisce loro indipendenza economica, ma anche una esperienza positiva ed emancipante) soffrono violenza.

Dai clienti? Sì, anche se i racconti di circa cinquanta lavoratrici sessuali che ho raccolto nei miei anni di lavoro come antropologa specializzata nello studio del lavoro sessuale svelano che le esperienze con i clienti sono state per lo più positive, e che la violenza più atroce non viene da loro, ma da altre fonti.

Il filosofo francese Bourdieu ben ci spiega come esistano due tipi di violenza: quella che si vede, che riconosciamo immediatamente e che possiamo codificare perfettamente, e quella invisibile, nascosta, camuffata dalla norma. Questo secondo tipo di violenza Bourdieu la chiama “simbolica” e sarebbe considerata così naturale da non farci rendere conto della sua esistenza.
Nel lavoro sessuale, come in altre realtà, questo tipo di violenza simbolica si nasconde innanzitutto nelle strutture di potere che si occupano di creare leggi e farle (o meno) rispettare.
Ad oggi, in molti paesi del mondo (inclusa l’Italia), sebbene legalmente la violenza verso le donne sia considerata un crimine, questo fenomeno viene quasi completamente snobbato quando si tratta di violenze commesse contro le lavoratrici sessuali. 

Uno dei motivi ha a che fare con la corruzione delle autorità, la quale arriva a livelli tali che spesso la polizia è la prima responsabile delle violenze commesse contro le lavoratrici sessuali della strada, o comunque complice nel mettere a tacere gli abusi che sono costrette a subire.
La violenza (che può sfociare in femminicidio) da parte della polizia, da parte del compagno o da parte dei clienti non è tenuta in considerazione perché le donne coinvolte sono “puttane”, quindi “se la sono cercata” e “se lo meritano”.

Ci chiediamo quindi, tenendo in conto la definizione di violenza simbolica di Bourdieu, se è più violento un femminicidio o il fatto che questo non venga investigato. Inoltre, per lo stigma o per la paura, molte lavoratrici sessuali non vogliono chiedere aiuto o denunciare perché ciò vorrebbe dire far venire alla luce la loro “doppia vita”, tenuta segreta per paura del giudizio della società. 

La società riproduce continuamente attraverso il linguaggio forme di violenza verso le lavoratrici sessuali e verso i loro familiari. “Figlio di puttana” è uno degli insulti più diffusi in molte lingue del mondo. La donna che si dedica al lavoro sessuale è così stigmatizzata che non solamente si insulta la sua persona, ma anche i suoi figli.
Che succederebbe se si iniziasse a diffondere un’espressione linguistica che insultasse i nostri figli a causa della nostra professione?

Nei pregiudizi (naturalizzati) della società si nasconde la forma più pericolosa di violenza. Pericolosa perché proviene dalla paura che permea tutto quello che non conosciamo.
Critichiamo mosse dall’ignoranza e parliamo “di loro” senza prima aver parlato “con loro”. 

Così mi raccontava Rosa, una donna lavoratrice sessuale di Barcellona:

“Ci criticano e ci vogliono scacciare dalla strada come se fossimo spazzatura. Ma sai cosa ti dico? Ogni giorno, prima andare al lavoro, mi faccio la doccia e il mio profumo toglie un poco alla strada quell’odore di fogna e di spazzatura ammucchiata nei marciapiedi. Ci chiamano delinquenti, ma io non ho mai ucciso nessuno, nemmeno una mosca. Ci chiamano tossiche, ma io non ho mai usato droghe, soprattutto nel lavoro perché, come in tutti i lavori, c’è bisogno di lucidità. Ci chiamano fenomeni, ma io ti dico che siamo persone come tutte le altre”.

Il 17 di dicembre è il giorno nel quale le lavoratrici sessuali scendono in piazza per protestare contro ogni tipo di violenza contro la loro persona.
Si fanno sentire per gridare al mondo che sono stanche di essere considerate criminali quando invece chi commette crimini (anche verso di loro) rimane in libertà.
Manifestano per chiedere alla società di riconoscere il lavoro sessuale come un lavoro (distinguendolo ovviamente dalla tratta), perché questo è il primo passo per cancellare lo stigma impresso nei loro corpi. Protestano dignitose e unite, ma con volto coperto, per non essere riconosciute, giudicate, disprezzate, uccise. Quando potranno finalmente manifestarsi a volto scoperto? Quando saranno considerate persone?

Invito a partecipare alla manifestazione contro la violenza nei confronti delle lavoratrici sessuali a Città del Messico.