Ripensarsi in solitudine, con tanto tempo, e lentamente – parte II

Ripensarsi in solitudine, con tanto tempo, e lentamente – parte II
Di Mari Catricalà

Alcuni interrégni sono più viscosi di altri; o più difficili da descrivere perché particolarmente agitati o indefiniti. Leggendo “Peonie” di Zadie Smith l’impressione è un po’ quella di annaspare tra i poli opposti – da lei considerati opposti – del tempo prima e del tempo dopo lo scoppio della pandemia, dell’immagine di sé donna giovane e di quella di sé donna adulta; della scrittura da una parte e della vita dall’altra, opposizione che in lei diventa anche quella tra controllo e sottomissione/travolgimento. Siamo, mi sembra, nel reame dei clichés, quei concetti così scontati da suonare a volte del tutto banali, ma che – parafrasando alcune parole di David Foster Wallace – sono una specie di velo brutto sotto il quale si nasconde una qualche verità, anche se relativa. Il punto è – sempre con Wallace – scegliere come guardare quella verità e che significato darle, che, a sua volta, forse è un altro cliché, ma estremamente utile per ricordarci che possiamo, anche se non dobbiamo sempre riuscirci, esercitare una forma di controllo sui nostri pensieri, per provare a vedere le cose da un’angolatura diversa dal solito. 

Proprio di interrégni, controllo e travolgimenti parla il primo saggio della raccolta Questa strana e incontenibile stagione di Zadie Smith (traduzione di Martina Testa, edizioni SUR). A proposito di verità relative, il saggio si apre con un incontro inusuale che la scrittrice fa con alcuni fiori, sono tulipani, a un crocevia di New York, pochi giorni prima che scoppiasse la pandemia anche lì. Zadie Smith ci dice subito che «già mentre li guardavo avrei preferito che fossero peonie», e in effetti le peonie sono i fiori che danno il titolo al saggio e «sono, continuano a essere, erano e saranno per sempre» i fiori che popolano il suo immaginario e il nostro. Le peonie al posto dei tulipani sono la sua verità relativa e il modo in cui la vede è una metafora della sua idea di fare scrittura: la scrittura, per Zadie Smith, è «controllo» e «resistenza».

Ho avuto la sensazione, e quando lo rileggo ce l’ho sempre, che “Peonie” sia una specie di confessione di impotenza di una scrittrice, l’affiorare della frustrazione e dell’ansia tra le parole (forse anche un po’ arrabbiate) che cercano di arginare la melma faticosa in cui l’autrice si trovava – il suo interrégno della prima ondata di pandemia. Questa, in realtà, è l’interpretazione individualissima di una lettrice come me. Nei miei percorsi di studio mi hanno sempre insegnato a non spingermi troppo oltre il testo scritto, a non analizzare la volontà di autori e autrici perché non è qualcosa su cui possiamo avere certezze. Tendenzialmente mi trovo d’accordo, ma “Peonie”, come anche gli altri saggi della raccolta, è volutamente personale, e riproduce l’immagine di sé che la scrittrice ha avuto di fronte alla riorganizzazione improvvisa di abitudini a cui la quarantena ha portato, allo scombussolamento che il suo modo di lavorare (scrivere) ha subito. Di fronte a queste parole così agitate ho rivisto, come spesso mi capita con la letteratura che incontro, il mio senso di frustrazione non per forza legato alla pandemia, ma più in generale a vari momenti di transizione in cui mi sono trovata a vivere. 

Zadie Smith oppone con energia e in più punti di quelle pagine il controllo che le riesce nella scrittura all’esperienza che «non ha titoli di capitolo o interruzioni di paragrafo, o puntini di sospensione per riprendere il fiato…ci viene incontro senza sosta». In questa descrizione del travolgimento dell’esperienza mi sono sentita accolta, ma ho anche percepito molto la tensione della scrittrice verso il suo desiderio di controllo. Questa forse è la mia verità relativa e la scelta che compio di vedere in questo desiderio attuato su carta solo un tentativo di controllo. Forse, per Zadie Smith che scrive, l’impressione è proprio quella di maneggiare accuratamente «lo stampo» entro cui versare tutto quello che nell’esperienza rimane confuso, travolgente, conscio o inconscio che sia, per dargli così una forma precisa e riuscire a soddisfare la sua «ossessione per il controllo».  Per me che leggo, la sensazione è quella di vedere emergere la tensione tra controllo e sottomissione, senza che il primo abbia la meglio sulla seconda. 

A un certo punto, Zadie Smith si chiede:

È possibile essere altrettanto flessibili sulla pagina – così sfacciatamente autoindulgenti e in perenne metamorfosi – come lo siamo nella vita? Sembra che non ne siamo capaci.

Non so quanto siamo davvero autoindulgenti nella nostra vita di tutti i giorni e soprattutto quanto lo siamo nei momenti di transizione che ci portano confusione e sfiducia, ma sono anche io abbastanza convinta del fatto che siamo in continuo mutamento. In realtà credo che la letteratura che racconta di interrégni (reali o fittizi) sia sempre una sintesi, e non per forza ordinata, di quel mutamento. Al contrario del cliché dell’arte che salva, in alcuni frangenti penso che leggere parole d’altri crei nuove crisi e discontinuità, o faccia emergere quelle che ci sono già in maniera più lampante e dolorosa. Questo sicuramente genera riconoscimenti e condivisione, ma attraverso l’incertezza, e spesso anche l’ansia. Se scriviamo e leggiamo di momenti di crisi, è un attimo che l’illusione del controllo si sgretoli e svanisca. 

Non penso saremo mai così autoindulgenti nella vita fuori dalla letteratura da sentire quella distanza e quello iato che sconvolgono Zadie Smith quando scrive – o forse è solo il mio scetticismo nei confronti della nostra propensione all’auto-perdono. 

Credo però sia vera la dichiarazione che conclude il saggio: «Subito prima che un aprile senza precedenti arrivi a rendere insensata ognuna di queste frasi». Ogni esperienza di vita e ogni esperienza letteraria sono ugualmente soggette alla mancanza di controllo pieno, all’arrivo di qualche «aprile senza precedenti». Ma credo che il tentativo o la finzione di esercitare il controllo sia ciò che la scrittura e la lettura possono fare e credo che sia proprio questo il loro contributo originale all’esperienza quotidiana. Questo non ci deve salvare necessariamente,  sarebbe pretendere troppo da alcuni testi letterari, ma almeno può aiutare il riconoscimento e la creazione di connessioni anche nel disordine e attraverso il disordine, che nei momenti di interrégno personali può tornare molto più utile di quanto non si sospetti.

Con questa tappa finisco di porre le basi un po’ astratte e generiche dei vari interrégni letterari e personali che troveremo anche nelle prossime puntate. Il bisogno di prestare attenzione alla confusione e all’indefinitezza è qualcosa che mi appartiene molto e che ho ritrovato nelle parole di Zadie Smith; ed è ciò che ricercherò e spero di riuscire a proporvi anche con i prossimi testi, attraversando interrégni di natura diversa.