“Grandi dimissioni” e benessere psicologico

“Grandi dimissioni” e benessere psicologico
Di Martina Boselli

Da alcuni mesi ormai si parla del fenomeno delle “grandi dimissioni” (Great Resignation o Big Quit, se vogliamo utilizzare un anglicismo), e di come la questione stia influenzando il mondo del lavoro e della nostra vita privata in generale. 

Il fenomeno si riferisce all’ondata di dimissioni dal posto di lavoro che si sta verificando da qualche tempo a questa parte, tanto da definire quella che stiamo vivendo come la Yolo Economy (acronimo di you only live once, si vive una volta sola).

Per quanto riguarda l’Italia, già i dati che  risalgono al secondo trimestre del 2021 mostravano un aumento considerevole del numero di contratti terminati a causa di dimissioni volontarie del dipendente, secondo i dati forniti dal  Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, tra aprile e maggio 2021 il numero di dimissioni in Italia è cresciuto dell’85% rispetto allo stesso periodo nel 2020. 
Guardando i numeri notiamo come il fenomeno riguardi persone di età compresa fra i 26-35 anni (70%) e tra 36-45 anni (30%), principalmente impiegati (82%) del Nord Italia (79%). I comparti più coinvolti sono soprattutto Informatica e Digitale (32%), Produzione (28%) e Marketing e Commerciale (27%). 

Molti imputano questa improvvisa necessità di cambiamento al post-pandemia. I lavoratori, infatti, nei mesi più complessi del Covid, non si sono impegnati nella ricerca di un nuovo lavoro, bensì nel riuscire a tenersi quello che avevano già (se erano stati abbastanza fortunati). 
Altri, invece, pongono l’accento su quanto, a livello psicologico, il Covid abbia contribuito a farci pensare e ragionare sulla nostra vita, obbligandoci ad un pit-stop coatto. Le riflessioni potrebbero aver portato molte persone a ricercare un migliore work life balance. 

Secondo un’interessante analisi di Mindwork, sembra emergere che le cause del fenomeno delle grandi dimissioni (che diciamolo, riguarda comunque le categorie che potremmo considerare già “privilegiate”) sia il peggioramento della qualità di vita di lavoratori e lavoratrici, insieme al desiderio di scelte lavorative per cui non si debba scendere a compromessi tra l’efficienza organizzativa e il proprio benessere personale.
Anche la cultura aziendale giocherebbe un ruolo fondamentale nel far sentire le persone accolte e apprezzate, impattando sull’umore e, inevitabilmente, sul turnover. Secondo un sondaggio di Oxford Economics, il 49% degli intervistati ha affermato che “lascerebbe il proprio lavoro attuale per una posizione meno retribuita in un’azienda con una migliore cultura organizzativa”. 

Insomma sembra che la maggior parte delle persone non siano più disposte a sopportare ambienti negativi che li conducano al burnout, definito dall’OMS “una sindrome concettualizzata come conseguenza di stress cronico sul posto di lavoro non gestito con successo”.

Ancora oggi si tiene pochissimo conto di questa condizione, imputando il problema al singolo individuo, piuttosto all’azienda o alla cultura del lavoro in generale.
Un articolo di Forbes racconta che “McEntire Produce – azienda del settore alimentare con 600 dipendenti e 170 milioni di dollari di fatturato – ha assunto un manager che ha il compito di persuadere i dipendenti a non licenziarsi”. 

Alcuni stati europei, come il Belgio, si stanno orientando verso un nuovo modo di considerare il lavoro, proponendo la riduzione delle giornate di lavoro da cinque a quattro giorni a settimana, mantenendo comunque le 38 ore previste ma impegnandosi a lavorare per una media di nove ore e mezza al giorno.

Analogamente si sta muovendo la Finlandia, dove la giovane Premier Sanna Marin ha proposto l’introduzione della settimana corta, composta da 4 giorni lavorativi di 6 ore ciascuno (con lo stesso stipendio).
Ad ispirare la Premier è stata la vicina Svezia , dove la città di Goteborg ha ridotto a sei ore al giorno l’orario dei dipendenti dell’ospedale municipale (senza variazioni salariali) mostrando risultati incoraggianti. 
In un Paese in cui si sono registrati 1.221 morti sul lavoro solo nello scorso anno, in cui gli stagisti muoiono tragicamente sul posto di lavoro  (ne abbiamo parlato qui), forse è giunto il momento di ripensare la nostra idea di lavoro e di integrarla meglio con la vita di ognun* di noi.