Il diritto di aborto è sotto scacco(?)

Di Elena Esposto

A El Salvador le manifestazioni per l’8 marzo sono iniziate presto. Già il giorno prima migliaia di donne si sono riversate per le strade chiedendo più sicurezza e rispetto dei diritti, in particolare il diritto d’aborto.

Il Paese centroamericano, oltre ad essere uno dei paesi con il più alto tasso di femminicidi al mondo, con quasi 14.000 donne uccise nel 2017 secondo la World Bank e un tasso di  2,1 femminicidi per 100.000 donne nel 2020, ha anche una delle legislazioni più severe al mondo in materia di interruzione volontaria di gravidanza.
La legge sull’aborto, approvata nel 1998, vieta l’aborto in qualsiasi circostanza e negli anni decine di donne sono state accusate di omicidio aggravato anche in caso di aborto spontaneo.

Proprio nella prima settimana di febbraio, come riporta il Guardian, è stata rilasciata dopo dieci anni di carcere Elsy (nome di fantasia), una donna di ventotto anni imprigionata dopo che aveva subito un aborto spontaneo. La sentenza iniziale l’aveva condannata a trent’anni.
Sempre secondo il Guardian negli ultimi vent’anni a El Salvador 181 donne sono state perseguite in seguito ad  emergenze ostetriche culminate nell’interruzione spontanea della gravidanza. Molte di queste donne si trovano ancora in carcere a scontare sentenze decennali.

Negli ultimi anni abbiamo visto molte legislazioni sull’aborto ammorbidirsi fino a renderlo legale. L’Irlanda nel 2018, l’Argentina nel 2020, San Marino e il Messico nel 2021 e la Colombia nel febbraio di quest’anno. Se da un lato possiamo rallegrarci per il raggiungimento di questi obiettivi non è il caso di essere troppo ottimistƏ.
In moltissimi Paesi l’aborto rimane ancora illegale (o fortemente limitato) e insieme all’approvazione di leggi più progressiste abbiamo visto anche seri attacchi alla libertà delle donne.

A ottobre del 2020 la Polonia ha reso più stringenti le misure che consentono l’aborto (in realtà lo ha reso praticamente illegale in qualsiasi caso).
A settembre dello scorso anno è stato poi il turno del Texas, che ha emanato una legge che vieta l’aborto dal momento in cui è percepibile il battito del cuore del feto. Questo avviene all’incirca attorno alla sesta settimana di gravidanza, e due settimane dopo le prime mestruazioni mancate, rendendo impossibile per le donne accorgersi di essere incinte in tempo per poter ricorrere all’interruzione volontaria di gravidanza.
Gli Stati Uniti sono un caso molto particolare perché, come scrive Joni Seager in L’atlante delle donne: “Poiché l’aborto è ancora legale a livello federale, la battaglia si è spostata nei singoli stati dove l’aborto non può essere vietato, ma è tuttavia in corso uno sforzo coordinato con l’obiettivo di ostacolarne l’accesso alle donne.”
È proprio di qualche settimana la notizia che il Senato della Florida ha votato una misura che vieta l’aborto dopo la quindicesima settimana, anche in caso di stupro o incesto. L’unica eccezione rimane per i casi di grave rischio per la madre o deformazioni fatali per il feto.
Secondo Joni Seager “nei primi 6 mesi del 2017, sono state introdotte a livello regionale 432 disposizioni che limitano l’accesso all’aborto. Di queste 41 sono diventate legge entro il mese di giugno. Nel 2014 il 90% delle contee statunitensi non aveva cliniche in grado di praticare un aborto. In 7 stati era disponibile solo una clinica”.
Gli Stati Uniti, come anche l’Italia e molti altri paesi, devono fare i conti con un radicato bigottismo e una visione del mondo eterocispatriarcale che vede la famiglia tradizionale (sotto il controllo del maschio) come elemento fondante della società.

Il tema della legalizzazione dell’aborto, comunque, non è importante solo dal punto di vista del diritto di scelta delle donne e della possibilità di autodeterminarsi rispetto al proprio corpo. L’altro aspetto che non va sottovalutato è quello relativo alla salute.
Rendere l’aborto legale significa anche renderlo sicuro. Renderlo illegale invece non significa eliminarlo ma al contrario aumentare il tasso di aborti clandestini e con essi il tasso di mortalità delle donne che vi ricorrono.

Secondo i dati del WHO relativi al 2021, nonostante nella maggior parte del mondo l’aborto sia ancora illegale o consentito in pochissimi frangenti, 6 gravidanze indesiderate su 10 vengono interrotte e circa il 45% degli aborti viene praticato in condizioni non sicure. Nei paesi in cui l’aborto è proibito o fortemente limitato questa percentuale sale al 75%, mentre nei paesi con una legislazione che tutela questo diritto scende al 10%.

Con l’espressione “aborti a rischio” si indicano tutte quelle interruzioni di gravidanza praticate da personale non sanitario o in ambienti che non rispecchiano gli standard medici e di igiene minimi.
La maggior parte di questi aborti viene praticato nei Paesi a basso reddito. Per tornare al caso de El Salvador con cui abbiamo aperto, la percentuale di aborti non sicuri in America Centrale è dell’82%, la più alta di tutto il continente.

La depenalizzazione dell’aborto dunque è un passo necessario per garantire non solo il rispetto del diritto di scelta e autodeterminazione delle donne, ma anche il diritto alla salute e a trattamenti sanitari dignitosi.
Questi diritti vanno costantemente rivendicati e le azioni di governi e legislatori monitorate. In una parola non dobbiamo mai abbassare la guardia, perché anche nei Paesi dove l’aborto è consentito serpeggiano correnti sociali pronte a rimetterlo di nuovo sotto scacco.