Nanny. Il film horror che celebra la rabbia de* oppress*

Nanny. Il film horror che celebra la rabbia de* oppress*

Nanny è il nuovo film della regista Nikyatu Jusu che ci porta nel cuore della rabbia e dell’oppressione delle donne.

di Elena Esposto

Quando vivevo in Brasile una delle cose che più mi lasciavano esterrefatta erano le tate.

Non semplici baby-sitter, ma proprio tate a tempo pieno, donne che vivono nella stessa casa con la famiglia dei bambini di cui si prendono cura, svolgendo anche altri lavori domestici come pulire e fare da mangiare.
Per molte di loro tornare a casa la sera dopo il lavoro è impensabile, data l’enormità delle distanze, la precarietà e il costo del trasporto pubblico e possono rientrare nelle loro abitazioni solo nel week end. Non è infrequente, infatti, che le case brasiliane abbiano di default una stanza in più per l’empregada domestica (tradotto letteralmente sarebbe “governante”, ma nella realtà assomiglia di più a “cameriera”, quando non direttamente a “serva”).

Ça va sans dire lo squilibrio di potere tra le empregadas e i loro datori di lavoro è enorme. Sono spesso donne della classe operaia provenienti da situazioni periferiche di povertà e degrado che si trovano a lavorare per famiglie dell’alta borghesia costrette a vivere nel paradosso di dover occuparsi de* figl* altrui per poter mantenere i propri, lasciandoli spesso soli per giorni affidati alle cure di altre persone, come nonn*, vicin* di casa, o fratelli e sorelle maggiori.

Ho ritrovato questo paradosso in Nanny, il film della regista di origini sierraleonesi Nikyatu Jusu presentato al Sundance Film Festival e disponibile su Amazon Prime.

Aisha è una giovane donna senegalese che, traferitasi a New York con l’intento di sistemarsi e aprire le porte del sogno americano a suo figlio Lamine, lasciato in Senegal alle cure di una cugina, inizia a lavorare per Amy e Adam, una ricca coppia dell’Upper East Side, prendendosi cura della loro figlia Rose.

Inizialmente la situazione sembra ideale. Amy appare gentile e disponibile, forse un po’ ansiosa ma tutto sommato amichevole tanto che già il primo giorno chiede ad Aisha se può abbracciarla e le presta un vestito quando alcuni amici si fermano per cena. La paga è buona e Rose una bambina ubbidiente e facile da gestire.

Non passa molto tempo, però, prima che questa sensazione di serenità si riveli tremendamente falsa.
Con maestria artistica e trucchi ripresi dal genere horror e abilmente rielaborati, Jusu distrugge un pezzo alla volta l’illusione di un mondo perfetto e senza macchia.
Tutto, dalla contrapposizione dei colori, saturati al limite del sopportabile, al forte contrasto tra luci e ombre fino alla scelta della colonna sonora ci trasmette un senso di minaccia imminente e ci instilla il sospetto di tensioni e conflitti latenti.

Aisha inizia ad essere tormentata da incubi e visioni terrificanti. Amy, consumata dallo stress e dalla lontananza del marito si rivela essere una donna instabile e incapace di compassione. Adam, completamente concentrato sulla sua carriera non ha nessun interesse a gestire le dinamiche domestiche. Perfino la piccola Rose inizia a comportarsi in modo strano, mostrando una sensibilità e una comprensione inquietanti per una bambina della sua età.

Le premesse iniziali vengono completamente ribaltate. La dinamica di potere che caratterizza la relazione di Aisha con Adam e Amy appare presto per quello che è. Aisha è intrappolata in un rapporto estremamente squilibrato, rapporto che non può troncare perché ha bisogno di quel lavoro e di quei soldi per restare negli Stati Uniti e potersi ricongiungere a suo figlio. È l’anello debole di quella catena che la imprigiona.

Mentre incubi e visioni peggiorano sensibilmente, arrivando a rischiare di metterla in pericolo, in Aisha monta una rabbia incontrollabile che fatica ad uscire.
Rabbia perché il suo lavoro non viene riconosciuto, perché Amy non la paga quanto dovrebbe, perché quando scopre che cucina per Rose cibi senegalesi (che la bambina apprezza tanto che per la prima volta nella sua vita mangia volentieri) piazza una telecamera in casa per controllarla, perché quando chiede ad Adam di pagarle gli straordinari dovuti lui la bacia, perché è stata costretta a lasciare il suo bambino, Lamine, da solo a migliaia di chilometri di distanza per inseguire la speranza di una vita dignitosa.

Questa rabbia diventa la chiave di volta per capire quello che sta succedendo nel mondo interiore di Aisha, per interpretare le sue visioni e i suoi incubi. È Kathleen, una medium e sacerdotessa afroamericana, la nonna dell’uomo che Aisha ha iniziato a frequentare, a parlarle per la prima volta di Mami Wata, spirito acquatico in forma di sirena venerato in varie regioni dell’Africa Occidentale.

Mami Wata e gli altri spiriti, le spiega Kathleen,

rappresentano la sopravvivenza e la resistenza per le persone oppresse. Essi sfidano l’ordine dominante, lo sovvertono con il caos, l’anarchia, l’energia creativa. Rifiutano di essere governati, sia dall’umano che dal divino.

A questo punto della storia Aisha è conscia della propria rabbia, ma non la riconosce come la forza che può renderla in grado di sfidare l’ordine dominante che la vuole oppressa, in balia di chi, per dinamiche distorte, può avere potere su di lei solo perché più ricc*, più bianc* o con un passaporto migliore.
Per lei gli spiriti sono solo presenze inquietanti che popolano i suoi incubi e le rubano lucidità e serenità.

“Io vorrei sapere che cosa vogliono da me” dice a Kathleen. “Dovresti chiederti cosa vogliono per te” risponde la medium.

Gli spiriti ci hanno dotato di resilienza ma gli strumenti degli spiriti non sono sempre gentili. Alcuni vogliono il sangue, occhio per occhio, altri vogliono solo che tu rinasca, così puoi perseverare. Non puoi mai davvero definire il bene e il male. La mia domanda per te Aisha è come usi la tua rabbia? È il tuo superpotere o la tua criptonite?

L’acqua, da sempre elemento femminile, che popola gli incubi di Aisha e che è sempre presente in quasi ogni scena del film, che sia quella della baia di New York, di una piscina, della vasca da bagno o di una macchia di umidità sul muro, diventa così simbolo di quella rabbia, di quell’angoscia incontrollabile di fronte all’ingiustizia che se da un lato può soffocarci, schiacciarci, annegarci fino a ucciderci, dall’altra può rappresentare la spinta necessaria che ci riporta in superficie, dove finalmente siamo liber* di respirare.

Il finale della storia resta aperto, giostrandosi abilmente tra la tragedia e il lieto fine. Non sapremo mai come si risolve il senso di minaccia che ci ha accompagnat* per tutto il film, quasi come se la regista volesse rendere tangibile questa dualità a cui può portare la rabbia de* oppress*.