Gender trolling. Che cos’è e sei modi per contrastarlo
Il gender trolling è la nuova frontiera della violenza contro le donne. Scopriamo come riconoscerla e come difenderci.
Di Elena Esposto
In apertura del suo saggio “La rete non ci salverà. Perché la rivoluzione digitale è sessista (e come resistere)” (Longanesi, 2022, 296 p.) Lila Giugni racconta la storia di Jess Phillips, deputata inglese del partito labourista oggetto di violenze e minacce sul web, dirette contro di lei e contro la sua famiglia.
Casi come quello di Phillips ce ne sono a centinaia. Secondo alcune stime più di un terzo delle donne del mondo hanno subito gender trolling (aggressioni online basate sul genere). Da un’analisi di Forbes il fenomeno colpisce in modo particolare le donne impegnate in politica o nell’attivismo. Per loro, la probabilità di subire abusi su internet è tre volte maggiore rispetto a quello dei colleghi maschi.
Il fenomeno della violenza online ha effetti gravissimi sulla vita delle donne che ne sono il bersaglio. Secondo quanto riportato da The Economist e ripreso da Giugni nel libro “tre quarti delle vittime di violenza digitale censite sono arrivate a temere per la propria incolumità fisica […] il 35% di loro ha riportato danni alla salute mentale, mentre il 7% ha perso il lavoro o ha deciso di cambiarlo”.
Se abusi e molestie sono all’ordine del giorno anche offline, il web non si limita a riflettere la misoginia intrinseca nelle nostre società, ma la amplifica e la trasforma in qualcosa di, se possibile, ancora peggiore.
“La rivoluzione digitale” nota Giugni, “ha aperto scenari nuovi e inquietanti. Per prima cosa ha fornito ulteriori strumenti a chi desideri colpire donne con un profilo pubblico, o un interesse per la militanza politica. E la questione non è soltanto quali e quanti canali possano oggi veicolare questi attacchi. Svariati altri aspetti rendono la violenza online unica nel suo genere, tra cui la sua strisciante intrusività, e il suo invadere ogni momento della giornata.”
Chiunque di noi faccia anche solo un minimo di attivismo o si sia mai trovata a dover esporre in pubblico le proprie idee conosce la sensazione di essere colte di sorpresa. Un messaggio violento, un insulto o una minaccia possono arrivare in qualunque momento, mentre sei in coda al semaforo, o appena uscita dalla piscina, o a tavola con de* amic*. La presenza costante del web e in particolar modo dei social media nelle nostre vite fa sì che possiamo diventare bersaglio del gender trolling h24 e 7 giorni su 7 senza sosta.
Secondo il report rilasciato nei giorni scorsi da #shepersisted, osservatorio indipendente sulla violenza digitali contro le donne, le ondate di odio online ed in particolare la gendered disinformation, ovvero la diffusione di notizie false contro politiche e attiviste con l’obiettivo di screditarle e minarne la credibilità, ha effetti estremamente deleteri sulla coesione sociale e sulla qualità delle nostre democrazie.
I continui attacchi e le minacce a loro stesse e alle loro famiglie portano spesso le donne ad abbandonare la carriera politica intrapresa (emblematico fu il caso di Manuela d’Avila, candidata alle presidenziali brasiliane nel 2018) o a decidere di non perseguirla nel caso delle più giovani, mettendo a repentaglio la partecipazione politica attiva delle donne, e con essa i valori che ne stanno alla base: la libertà di espressione, l’uguaglianza e in definitiva la stessa democrazia.
Che cosa possiamo fare dunque, per limitare questi fenomeni?
In primis, ci suggerisce Giugni in chiusura del suo saggio, occupare il più possibile gli spazi virtuali sottraendoli alla “manosfera”, cioè quella rete di comunità maschili online che promuovono convinzioni antifemministe e sessiste. Riempire il web di contenuti che possano spingere verso una maggiore emancipazione rendendo internet uno strumento che possa incoraggiare la resistenza delle donne su tutto il pianeta.
In secondo luogo, creare spazi virtuali e piattaforme alternative ai social tradizionali. Alcuni esistono già, ma le possibilità di espansione sono davvero infinite!
Terzo, mettere in atto meccanismi di accountability e trasparenza e abbattere i monopoli digitali. La struttura intrinseca dei social network, infatti, è una delle cause principali del problema. Gli algoritmi sono costruiti per pompare notizie e post che generino traffico di dati, aumentando così i profitti delle compagnie. Spesso però questi contenuti che diventano virali sono proprio quelli con il più alto tasso di violenza, ma solo raramente vengono eliminati proprio perché generano un grande flusso di interazioni.
Quarto, democratizzare gli ambienti dove vengono prese le decisioni tecnologiche rendendo la rivoluzione digitale più inclusiva. Finora l’ambito tech è stato un monopolio di maschi-bianchi-etero-cis. La mancanza di rappresentazione degli altri gruppi sociali contribuisce ad aumentare e perpetrare il livello di discriminazioni e violenze.
Quinto, prendere sul serio le molestie e le campagne di odio, non accontentandosi delle “pezze” messe dalle compagnie che gestiscono i social network per una pura questione di immagine, ma chiedendo cambiamenti strutturali.
Sesto, agire con campagne educative per contrastare la violenza offline. Perché se è vero che gli attacchi online non sono una semplice propaggine di ciò che succede nella vita reale, è anche vero che non abbiamo nessuna speranza di arginarli se non agiamo alla fonte della misoginia, ovvero nella cultura e nell’educazione delle persone.