Sono disabile: ho il diritto di (non) essere madre

Sono disabile: ho il diritto di (non) essere madre

Come affrontare il tema del diritto di aborto da un punto di vista pienamente intersezionale che includa nel discorso anche il tema della disabilità?

Di Sofia Brizio

Due anni fa scrivevo il mio primo articolo per Le donne della porta accanto. Era una sorta di sfogo su quanto mi sentissi esclusa dai movimenti femministi in quanto donna disabile. Dall’alto della mia piccola bolla di Instagram, mi sento di dire che sono stati fatti progressi, anche se piccoli. Di questi argomenti si parla molto di più ed è una vittoria aver trovato attivist* che condividono i miei stessi sentimenti e perplessità. 

Un argomento di cui però non si parla ancora abbastanza è quello della maternità per le persone disabili. È un argomento che fa un po’ paura e che forse non si affronta perché ci sono cose più importanti, ad esempio l’emergenza climatica. Chi vuole mettere al mondo un bambin* quando non siamo nemmeno certi di cosa lasceremo alle nuove generazioni, o dei disastri climatici che noi stess* ci troveremo a dover affrontare nel corso delle nostre vite?

Mi dico spesso che è questo ciò che trattiene anche me dal parlarne, ma forse la realtà ha più a che vedere con ciò a cui ho accennato proprio nell’articolo di due anni fa: parlare di maternità e disabilità ci costringe a esaminare i nostri pregiudizi. Dico ‘nostri’ perché anch’io faccio fatica a liberarmi del mio abilismo interiorizzato quando si parla di maternità. Noi donne disabili, lasciate indietro dal femminismo tradizionale, spesso non parliamo di diritto all’aborto negli stessi termini dei dibattiti mainstream, perché stiamo ancora combattendo per il diritto di essere considerate madri valide. Io per quel diritto combatto anche se sono abbastanza sicura di non volere figl*, però a volte cado nella trappola e penso che anche se volessi figl* non ne avrei perché riesco a malapena a prendermi cura di me stessa, figuriamoci di un altro essere vivente. 

A volte, come molte altri aspetti della disabilità, questo modo di pensare deriva dalle percezioni sociali che ci circondano. Di madri disabili non si parla perché si presume che non esistano, e quindi non esistono spazi adatti a queste conversazioni. Le mie ricerche per questo articolo ne sono un esempio lampante. Per colmare le mie lacune sull’argomento in quanto donna cis giovane e senza figli, ho cercato articoli e podcast in più lingue per raccogliere vari punti di vista. Una veloce ricerca su Spotify usando le parole ‘maternità e disabilità’ e ‘madri disabili’ rivela una stregua di episodi rivolti a madri (sottinteso non disabili) di figl* disabili. 

Non è giusto negare le difficoltà di chi si trova a crescere un figli* disabile, perché esistono e non sono da poco. Il problema è l’insistenza con la quale la nostra società considera la disabilità una tragedia, a tal punto che l’ascolto di chi ha figl* disabili viene messo al centro anche quando è irrilevante. Penso alla giornalista inglese Hannah Turner, che la scorsa estate, mentre scriveva un articolo su disabilità e maternità per Cosmopolitan, ha usato i social per contattare madri disabili e si è invece trovata sommersa di richieste da madri non-disabili desiderose di parlare di quanto sia difficile la vita con un figli* disabile. 

Negare spazi online e offline alle madri con disabilità significa anche negare la complessità della maternità e cosa significa essere madre. C’è chi non è in grado di portare a termine una gravidanza e sceglie di avere figl* in altri modi, inclusa l’adozione, ma quando hai una disabilità questi servizi sono inaccessibili proprio perché il giudizio comune è che disabilità e maternità non possano coesistere. 

Le persone disabili che possono concepire e portare a termine una gravidanza sono spesso invitate ad abortire, e se si oppongono vengono definite egoiste. Egoiste perché scelgono di mettere al mondo un bambin* di cui non potranno prendersi cura nei modi considerati ‘convenzionali’, oppure egoiste perché in alcuni casi l* bambin* potrebbe ereditare la stessa disabilità della madre (o del padre, ma ci vorrebbe un intero articolo solo per questo) e a quanto pare far nascere un bambin* disabile è un crimine.

Questione diversa ma stesso pregiudizio quando si parla di adozioni. Il processo di adozione è complesso in qualsiasi caso, ma per le persone disabili ci sono barriere aggiuntive, gli incontri per valutare l’idoneità dei genitori sono molti di più, e spesso la decisione di adottare da parte di una persona disabile viene considerata un desiderio egoistico di realizzazione personale, per porre rimedio all’insoddisfazione della propria vita. 

D’altro canto, l’adozione a volte è incoraggiata quando l’unica altra opzione sarebbe concepire un figl*, con il rischio che nasca disabile. Come abbiamo visto, nella nostra società qualsiasi cosa è preferibile alla disabilità. 

Maternità e disabilità sono questioni complesse anche quando non si intrecciano. Ma le difficoltà di ascolto delle madri  e potenziali madri disabili derivano dalla natura contraddittoria delle aspettative sociali: le donne disabili sono donne, ma non altrettanto valide, perciò sono sottoposte a una doppia oppressione sistemica per la quale si battono per essere considerate donne, e allo stesso tempo convivono quotidianamente con le difficoltà dell’essere donne. 

Quindi può succedere che chi è disabile ed è in grado di portare a termine una gravidanza consideri la maternità come un obbligo a causa delle pressioni sociali che opprimono anche le donne non disabili. Questo obbligo può essere ancora più schiacciante di fronte alla consapevolezza che non tutte le persone disabili hanno un corpo che permette di portare a termine una gravidanza, e allora se tu ne sei in grado dovresti solo ringraziare di avere un corpo che te lo permette, e cogliere l’occasione finché sei in tempo. E poi si torna a fare i conti con chi dice che fare figl* quando sei disabile è un atto di puro egoismo. È un circolo vizioso. Raramente si riesce ad averla vinta. 

La questione di fondo è sempre la stessa: quando si tratta di corpi non conformi, tutti devono avere un’opinione. Ma nel caso della maternità, queste opinioni fanno ancora più male perché sono la massima espressione di chi pensa che i corpi disabili non debbano esistere.

Questa consapevolezza mi ha investito con violenza di recente, da quando l’attivista disabile statunitense Alex Dacy (@wheelchair_rapunzel) ha iniziato a documentare la sua gravidanza su Instagram. I commenti in risposta alla sua felicità per la bambina in arrivo sono un alternarsi di you’re not capable of doing this (‘non sei in grado [di essere madre]’) e you’re so selfish (‘sei un’egoista’). 

Sono sempre più convinta che i commenti aggressivi siano un meccanismo per evitare domande scomode per chi è privilegiato, per evitare di considerare l’idea che forse un bambin* può essere tanto felice, se non di più, con una madre disabile quanto con una madre non disabile. 

A Natale ci troviamo spesso a riflettere sul concetto di ‘famiglia tradizionale’, parliamo di maternità come qualcosa di sacro e immutabile. Quest’anno, se potete, fatevi qualche domanda scomoda, pensate a quanti modi ci sono di essere madri, pensate a quante volte la maternità viene negata su basi discriminatorie. Spesso e volentieri, i limiti sono negli occhi di chi guarda e di chi odia.